domenica 9 novembre 2014

Tu che conosci il mare (lettera per un'amica)

Mi hai detto dovresti scrivere qualcosa sul mare ti ricordi e poi beh i tuoi occhi si sono inumiditi e hai trattenuto a stento l'emozione, perché è questo che ti succede vero quando parli del mare, lo pensi, lo senti, lo vorresti.
Come una persona amata, perché questo è per te il mare, lo cerchi, lo attendi con pazienza ed ansia, lo avvicini con passione e alla fine come accade per la persona amata, ti getti nelle sue braccia sentendolo fin nel profondo della tua anima.
Come sarebbe il tuo mondo senza il mare, senza una vela, un soffio di vento ilmare che si increspa all'orizzonte.
Hai mai provato a guardare la terraferma da una barca, la percezione della terra dal mare? Cosa si prova a sentirsi non più cittadini di qualcosa di fermo sicuro , ma di qualcosa di mutevole e ingannevole come a volte è il mare?
Il mare mi dici, scrivi del mare. Ma tu riuscì resti a scrivere dell'amore? Si può scrivere davvero del mare e dell'amore? Si può scrivere di una parte di mare di alcune delle sue mille sfaccettature come si può scrivere solo in parte dell'amore.
Il più delle volte l'amore nasconde e si nasconde come il mare, quando nasconde segreti o appare improvvisamente dietro una montagna.
Scrivi del mare mi dici, si io sono nato sul mare e forse per questo mi è difficile scrivere di una parte essenziale di me.
Si può scrivere dell'anima, si può scrivere della sua separazione?
Si può scrivere della mancanza del mare della sua assenza, come quella di un amore lontano o irraggiungibile?
Dovresti scrivere del male mi hai detto, e alla fine qualcosa l'ho scritto ora tocca a te scrivere del mare, della vita, del sogno' della disillusione perché so cosa sente il tuo cuore mentre gli occhi ti si inumidiscono e tremi sognando ilmaremare.

giovedì 18 settembre 2014

"Pensavo è bello che dove finiscono le mie dita debba in qualche modo incominciare una chitarra".

Da quanto ricordi la musica è stata sempre parte di me, parte del mio animo, della mia sensibilità.
Mia madre racconta spesso di quando mi sdraiavo per terra nella mia camera e ascoltavo per ora le due tre cassette che avevo. Avevo tra le tante una cassetta di Sergio Endrigo con alcune canzoni per bambini, l'ho consumata sentendola.
Gli anni settanta -ottanta in Italia e soprattutto in una piccola città di periferia come Gaeta erano mille anni luce da Seattle, dall'America del Rock e del futuro Grunge.
Era l'italia delle grandi interpreti e dei cantautori.
E' con loro che sono nato e da loro torno spesso con nostalgia, quando ho voglia di cantare qualcosa di vicino.
Mio fratello suonava il pianoforte, ha sempre avuto un'orecchio musicale, ed è il vero artista della famiglia.
Io imparai a suonare la chitarra quasi per caso. Mia madre l'aveva comprata per se e io iniziai a suonarla al rovescio per poi inziare da autodidatta a strimpellare i primi accordi.
Da allora non l'ho più abbandonata, quando ne vedo una devo comunque sfiorarla anche se non posso suonarla , "Lei la chitarra" come canta Bennato.
Vale per me quanto dice De Andrè nella canzone "Amico Fragile" :"pensavo è bello che dove finiscono le mie dita debba in qualche modo incominciare una chitarra".
La chitarra mi ha accompagnato nel tempo e ancora mi accompagna, in ogni momento della mia vita e la musica è sempre presente nella mia testa, nel mio cuore.
Quando sento la musica il mio piede inizia a ritmare senza che possa controllarlo, anche il mio amico Gianni se ne accorse una volta tanto da far notare agli altri: "Avete visto come fa ... basta che sente una nota".
Negli anni dell'adolescenza, dell'università, nei primi amori, la musica c'è sempre stata, andando avanti negli anni ai cantautori si sono affiancati sempre di piu' i gruppi rock, i Guns and Roses su tutti, ci si evolveva, si cercavano altre sonorità.
Stavo cercando la mia musica dell'anima, e seppure molto di quello che ascoltavo mi emozionasse e mi scuotesse, dovetti aspettare l'entrata nella mia vita della voce e delle liriche di Eward Louis Severson III, per sentire vibrare le corde piu' profonde dell'animo, ma ci volle tempo per capirlo per comprendere il perchè quei testi più che la musica stessa mi stessero cambiando. Ci volle tempo e la maturità, perchè spesso si può aspettare anche anni prima di innamorarsi veramente, prima di sentire che quella musica, quelle parole sembravano scritte da un'anima incredibilmente vicina.
Ma questa storia la racconterò magari domani.



Per ora ... Buonanotte e buona musica !!!

domenica 10 agosto 2014

Eravamo due spagnoli al bar decisi a cambiare l'Ucraina ... o no?

Ieri ho letto con un certo interesse sul giornale "Ultima Hora" questa notizia di cui posto il link:

http://ultimahora.es/mallorca/noticias/nacional/2014/130520/estamos-dispuestos-todo.html

La storia per chi non comprende lo spagnolo e' questa. Due ragazzi spagnoli, Rafael Munoz residente nelle Asturie e Angel originario di Cartagena vicino Murcia, durante quest' estate non tanto calda, forse colpiti dal primo vero e tremendo sole di agosto, decidono che il calcio, la politica, e perche' no la f..a non gli bastano piu'.

Essendo loro due notevoli esponenti della  UJCE (Unióne  della Gioventu' Comunista di Spagna) e  IU (Sinistra Unita) e noti paladini della giustizia nonche' di movimenti ecologisti, sociali e proaimalisti, decidono che il loro impegno "pacifista" naturalmente e' necessario in Ucraina per difendere la gente del Sud Est del paese dalla smisurata aggressione alla popolazione civile. A France 24 proclamano di "essere qui e lottare unicamente per la pace e la liberta' di questa gente".
Per fare questo cosa fanno si dichiarano disposti a tutto, loro che dichiarano di non aver mai preso un'arma in mano, servendo nella "gloriosa" Brigata Vostock.

Sinceramente non mi va neanche di commentare, se ci credono loro problemi loro.

Anche nel loro caso pero' ci troviamo di fronte ad una lettura non piu' del tutto minoritaria del conflitto. Nel Sud Est dell'Ucraina si scontrano due potenze. La potenza del male, nazista e retrograda, raffigurata dal fantoccio politico Poroshenko e dall' "Ammerika", e le Brigate del Bene, la banda di mercenari prorussi che sembra piu' una multinazionale, unita, pero', dal messaggero del bene il "comunista" Putin.

Anche i due spagnoli evidentemente la pensano cosi', se pensano di stare dalla parte dei buoni.

Io ho la mia idea e l'ho espressa in alcune circostanze, un'idea che non si ciba dei commentari pro ucraini e quelli altrettanto fuorvianti che vengono postati sul web da alcuni intellettuali militanti come ad esempio, Nicolai Lilin.

Magari la ribadiro' piu' avanti quando pubblichero' la mia ultima canzone intitolata "Soldato Igor" ci sto lavorando manca ancora un po'.

Comunque sia loro ci credono e su Youtube e Facebook dichiarano di essere li per diffondere la verita' che i mezzi d'informazione nascondono, come successe nel 36 in Spagna.

Ma si mettiamoci pure un po' di dietrologia storica.

Sapete che c'e' in fin dei conti spero proprio che tornino vivi , so' ragazzi !!!

Ah, se passate da Donetsk e dintorni per favore glielo spiegate voi che il comunismo e' da tempo finito e che Putin non e' il grande padre Lenin?

Un abbraccio a tutti buona estate.


martedì 22 luglio 2014

Lo spirito di un villaggio. Storia di pace in un giorno di guerra

Da che ricordi ci sono sempre stato. Prima ero solo lo spirito dei luoghi, il rumore e il canto del vento, dell'acqua che scendeva dalle montagne, e terminava in qualche modo al mare. Eravamo solo io e lo spirito del fiume ci parlavamo nel silenzio, senza bisogno di parole.
Poi qualcuno, un nuovo animale , molto più intelligente degli altri ha iniziato a calpestare la mia terra, prima con dolcezza camminava sui miei prati, sulle mie rocce, si bagnava nelle mie acque, ed in fin dei conti era bello sentirsi amati.
Poi però il suo atteggiamento cambiò, e con lui quello degli altri che lo avevano seguito. Iniziò a conficcare legno nella mia terra, nel mio spirito, ma non mi faceva male, il legno è parte di me.
Con il tempo arrivarono altre persone, sempre di più e pian piano il legno lasciò il posto alla pietra  che però era sempre parte di me.
Qualcosa accadeva, qualcosa perdevo ogni giorno, erba, acqua, pietra, legno, ma ero certo che nonostante tutto chi abitava il mio spirito era parte di me.
I tempi corsero veloci, già non c'era più erba sul mio dorso, i rumori non erano più quelli del mio spirito, l'acqua era sempre più scarsa, il legno usato per i giochi dei cuccioli umani, e gli alberi sempre più pochi.
Avanzava il deserto da sempre mio nemico e ne avevo paura.
Ma pensavo comunque che nonostante tutto chi abitava i mio spirito, la mia terra mi amasse più di ogni cosa e questo mi rendeva comunque felice, anche se perplesso.
Ci fu però un epoca in cui compresi che non era amore quello che spingeva i miei ospiti a costruire , a vivere sulla mia terra.
Fu in quel periodo che iniziai a sentire le prime ferite e a sanguinare di dolore.
Fu quando altri arrivarono e calpestarono fino allo sfinimento, quelli che mi avevano costruito addosso.
Era la guerra dicevano, distruggevano tutto quello che chi c'era prima aveva costruito con parti del mio spirito, della mia terra, non capivo. Non c'era terra abbastanza per tutti?
Cambiarono le facce, le parole, le musiche e i colori, nuova gente, ma ormai ero lontano dal sentirmi parte della loro storia, la mia era ormai una storia di ferite.
Eppure non era che l'inizio.
Le guerre continuarono, gente senza cuore si sostituì ad altrettanta gente senza cuore.
Solo i bambini mi piacevano, ancora carezzavano quello che restava di me.
Poi arrivò una guerra che si prese soprattutto i bambini, per sbaglio, per errore dicevano.
Piovevano bombe e missili come coltelli nella mia nuda pelle, e io soffrivo e moriva pian piano il mio spirito.
Per anni solo fumo sulla mia terra, e desolazione.
Parlavo per ore con lo spirito del fiume e gli chiedevo perchè?
Lui mi rispondeva con altre domande: chi erano i corpi che accompagnava verso il destino, chiedeva?
Per lungo tempo eravamo solo io e lo spirito del fiume come nei tempi passati, la natura, la terra si era ripresa la città, l'aveva trasformata ricondotta a quello che era, al mio spirito.
Ma ormai nonostante tutto non potevo fare a meno di quegli animali pensanti.
E un giorno uno di questi ritornò, con grazia e rispetto iniziò a lavorare il mio spirito.
Che avessero capito? Che avessero compreso il dono della vita?
Lo spirito del fiume si girò dall'altro lato e si chiuse in silenzio.
Anni dopo ancora una volta trasportava frammenti di vita.
Nulla era cambiato, e le coltellate sulla mia pelle, sulla mia terra, sono ogni giorno sempre più terribili.
La mia voce si spegne.

venerdì 11 luglio 2014

Soltanto un altro giorno. Ricordando Srebrenica.

Questo e' soltanto un altro giorno in questo posto dimenticato da Dio. Prima viene l'amore poi segue il dolore. Che i giorni abbiano inizio. Le domande aumentano e le risposte cadono insormontabili...”.
Più o meno con queste parole inizia Love Boat Captain una delle più intense canzoni di Riot Act, l’album dei Pearl Jam frutto di un dolore forte e inaccettabile, una canzone magari poco conosciuta e poco cantata nei concerti ma in cui, a mio parere, il grande poeta Eddie Vedder ha sintetizzato la percezione del senso di vuoto che porta il dolore e la necessità dell’amore necessario per superarlo.
Soltanto un altro giorno quindi, con il suo dolore, con la sua pena , un giorno come tanti per molti, un giorno difficile da dimenticare , per molti, per i tanti che vivevano tra i monti al confine tra Bosnia e Erzegovina e Serbia.
Un altro anno è passato ed è di nuovo il momento di ricordare Srebrenica, il dolore incommensurabile, la ricerca incessante della giustizia, i tentativi di revisionismo o solo di ridimensionamento.
Un altro anno è passato pensando al dolore degli altri.
Srebrenica per me, nel tempo, è divenuta un’ossessione, che si è sempre di più accentuata invece che attenuarsi.
Neanche visitare il Memoriale di Potocari mi ha aiutato a fare i conti con questo dolore “questions rise and answers fall insurmontable
Molti potrebbero pensare: “ma in fin dei conti non si tratta di un tuo dolore, è un dolore di altri , perché lo senti così tanto tuo?
Forse perché quando tutto è successo e per anni ancora, l’intero mondo si perse nella sua indifferenza e forse perché penso che tutti dovremmo essere ossessionati dal genocidio che li è avvenuto e che si perpetua in mille e svariate forme ogni giorno, nelle mille Srebrenica che purtroppo ogni giorno segnano il mondo.
E poi perché sono sicuro che se al posto di migliaia di steli bianchi, fossero state piantate nel terreno miglialia di croci bianche, lo sterminio di Srebrenica avrebbe avuto un impatto differente. Sono morti dei musulmani, per anni poco è importato e forse ancora adesso qualcuno ha retro pensieri.
Srebrenica rappresenta la paura che possa accadere anche qui a pochi chilometri da casa.
A Tuzla, Srebrenica, Bratunac, oggi, più che ogni giorno, un vento freddo e ostile attraverserà come un brivido l’animo di chi è rimasto o di chi è ritornato in una terra desolata.
Molto si è scritto, molto nel mio piccolo, ho scritto anch’io e ne trovate traccia nel finale di questa breve riflessione.
Ma quel che rimane è il silenzio , il maledetto, terribile, silenzio del Memoriale di Potocari.
E’ soltanto un altro giorno che Dio manda sulla terra e in fin dei conti quello di cui abbiamo bisogno è solo amore.
E vi auguro amore e pace e lo auguro soprattutto, alle nonne, le madri, le figlie , figli e nipoti di Srebrenica.

Love is all you need

Per approfondire vi invito a leggere e vedere alcune cose che ho raccolto nel corso dei miei viaggi nei Balcani, video, foto e brevi riflessioni:

https://www.youtube.com/watch?v=DqeZ1tc48nw (prima parte di un video che ricostruisce l'atto che ogni 11 del mese si svolge nella piazza intitolata ai martiri a Tuzla in memoria di tutte le vittime di Srebrenica, la registrazione video e' del novembre 2009)

https://www.youtube.com/watch?v=chuCgT2tg6I (seconda parte del video girato a novembre 2009)


http://www.balcanicaucaso.org/Reportage/Un-infinito-prato-di-steli-bianchi.-Ricordando-Srebrenica-147284 (Una mia riflessione su Srebrenica dopo la visita al Memoriale di Potocari Gennaio 2014 ospitata dal sito dell'Osservatorio sui Balcani e il Caucaso)


Love Boat Captain


lunedì 30 giugno 2014

C'era una volta il Pigneto. Come ho visto sparire un quartiere.

C'era una volta un quartiere, un quartiere ancora operaio nei primi anni novanta del novecento. Forse un po' decadente certo, ma pieno di vita, quella vera, quella dell'operaio per intenderci, del negoziante di quartiere, della gente comune che s'incontrava nell'isola pedonale per raccontarsi di figli e nipoti. C'era aria di casa, di famiglia.
Certo mancava il cinema, o meglio c'era , anzi erano due, l'Aquila e l'Avorio, cinema a luci rosse, quante risate con i miei coinquilini (ancora adesso siamo legati da un'amicizia che ha superato il tempo e lo spazio e le diversità) al leggere i fantasiosi titoli. Sbirciavamo dentro per vedere chi erano gli improbabili avventori.
Non c 'era il bulgari dell'eco sostenibile dove se compri un pomodoro è come se comprassi un gioiello, ma c'erano i "fruttaroli", e vi assicuro che i prodotti che vendevano erano sicuramente molto più biologici e meno radical chic o hipster di quelli che ora compriamo a 10 euro al chilo.
Non c'era la filiera indicata, ma in definitiva nei negozi "biologici" difficilmente l'ho trovata indicata.
Non c'era una libreria è vero, ma alcune volte c'era il cinema all'aperto, retrospettive su Pasolini, e la sera si poteva godere del fresco nell'isola pedonale.
Io abitavo a Via Pesaro 48, all'angolo con via L'Aquila, di fronte casa c'era la Taverna Scarpetta, dove oggi c'è lo Yeti c'era un piccolo negozio che vendeva di tutto, un po' come i negozi dei pakistani oggi.
Poi pian piano "qualcuno" (non so chi e non mi interessa) ha scoperto il Pigneto, e le cose sono iniziate a cambiare e sembrava, in meglio.
La Borgata diveniva gradualmente quartiere, entrava nella città, nel suo centro.
Lo Yeti fu la prima struttura di un certo livello che aprì, ricordo i lavori, l'attesa, cosa avrebbe aperto al posto dell'alimentari? E poi la bella sorpresa, un bar libreria che divenne ben presto uno dei miei luoghi preferiti, un'oasi dove incontrarsi con gli amici, invitarli a scoprire come stava cambiando il Pigneto non si voleva venire perchè era perifieria.
Inizialmente non si trattò di una vera invasione, oltre l'Infernotto e lo Yeti c'era poco. Ah si c'era il pizzettaro fiorentino che ancora c'è, ricordo che era chiuso il mercoledì giorno delle canoniche partite di coppa, e c'era una pizzeria a taglio su via L'Aquila che noi chiamavamo "Calda Calda" perchè la signora diceva sempre "è calda calda", mai visto uno scontrino però... ma si una volta forse ... era in giro la finanza.
Ogni tanto capitava che qualcuno si accoltellasse, sapete com'è poca cultura, classi sociali non elevate, gente di borgata dicevano.
Oggi si accoltellano ancora al Pigneto vero? Gente di borgata?
I primi anni era tutta un'effervescenza cultura, librerie, quasi librerie, bar, ristoranti, cultura, cinema. C'era il Grauco, vecchio stampo, vecchio stile, mai stato al Kino, magari hanno continuato nella loro opera chissà.
Venne restaurato il cinema L'Aquila , tolto alla malavita, restituito alla cittadinanza, una delle poche e ultime cose fatte dal Comune e dalla Circoscrizione, si badi, sempre di sinistra e da sempre, per il quartiere, poi il nulla o quasi.
Perchè nel frattempo era iniziata la mutazione, le storie di vita dei vecchi abitanti andavano via, migravano, morivano, e al loro posto arrivavano nuove storie da costruire, una nuova identità per il quartiere? Non è stato così.
Ricordo l'ultima sera nella mia casa a via Pesaro prima di trasferirmi, il silenzio, ho guardato e accarezzato ogni parete di quella piccola casa e ho sentito un'epoca finire, sgretolarsi. La mia nuova vita iniziava e finora è stata piena di cose belle e di valore, la vita del "mio" Pigneto finiva, si sgretolava.
Per anni ho continuato a percorrere le strade del mio quartiere, sono arrivati gli artisti dicevano, vedrai come cambierà, diventerà una laboratorio di multiculturalità. E per un po' ci ho creduto che illusione e che delusione.
Chi erano gli artisti che venivano al Pigneto, che facevano, dove vivevano? Quasi non percepiti.
Però magari ti dici, sei tu che non la vedi questa vita culturale, se la gente ci viene ci troverà qualcosa no?
Poi però gradualmente chiudono le librerie, al loro posto altri piccoli e fatiscenti negozietti di alimentari, e intorno solo buchi ricavati nei vecchi magazzini del mercato dove si mangiano più o meno le stesse cose ammantate di nuovi nomi, basta inserire qualcosa di etnico e di "radical" e metterlo a 12 euro al piatto e tutto assume un altro valore.
E poi lo spaccio, le aggressioni. Sono stato anch'io aggredito in pieno giorno dopo essere stato "bloccato" sul marciapiedi da due ragazzi che volevano quasi costringermi a comprare lo loro "merda" (scusate ma quello è) tirandomi anche la catenina. Ci ho quasi ricavato un pugno in faccia ... ma è un episodio pensi no?
E purtroppo non è così.
Mi ritrovo alcune volte a pensare a qualche tempo fa, quando tutto era più povero e semplice forse e chissà anche più chiaro e poi guardo l'isola pedonale, il nulla che si è costruito e immagino che prima o poi, la gente, quella vera, che vuole riempire di identità un luogo, si riprenda gli spazi.
Ma poi mi guardo in giro e penso che in fin dei conti a chi viene al Pigneto gli interessa solo una bella "magnata" , una bevuta, una bella "canna" con gli amici, se ci gira pure una pisciata contro il muro va, che fa sempre bene, e penso: e adesso chi li ferma, chi convince la poca gente del posto che c'è qualcosa di buono oltre lo sballo? Come si fa a non convertire questo luogo in un nuovo luogo di foraggio per Forza Nuova?
La sinistra se ancora esiste, che in qualche modo ha "creato" il Pigneto se ne fotte, e intanto il quartiere è già fottuto.

giovedì 19 giugno 2014

Maiorca, la guerra civile spagnola, le fosse comuni e i bambini rubati. Parte prima.

Ricordo che in un film che ho avuto modo di vedere proprio qui a Maiorca, il film israeliano “ The Machmaker” di Avi Nesher  (2010)  , uno dei personaggi, un ragazzino chiede al nonno: “Ma perché è successa la guerra? Cosa erano i campi di concentramento?” .
Il nonno lo guarda e arrabbiandosi di colpo gli risponde: “Di queste cose in questa casa non si parla”.
La rimozione di eventi traumatici da parte non solo delle persone (si veda il bellissimo film e il fumetto da cui è tratto Valzer con Bashir) , ma delle intere comunità è una costante nella storia.
Connerton ha analizzato i modi in cui le società ricordano e dimenticano in due libri “Come le società ricordano”  (Armando editore) e il recentissimo “Come la modernità dimentica” ( Einaudi).
Tra continui vai  e vieni vivo a Maiorca ormai da più di tre anni e mi stupisco sempre di più di come tutto ciò che è legato alla guerra civile, a  Franco, alla dittatura, sia visto e vissuto come una sorta di tabù, qualcosa da non nominare, di cui non è necessario parlare, di cui ci si deve dimenticare perché la società trovi la sua pacificazione.
Un modo di affrontare la storia recente che fonda le sue radici fin dal periodo storico della Transizione (la prima esperienza democratica dopo la fine della dittatura franchista) quando,  più che tentare uno scontro tra le diverse parti,  si è cercata subito una forma di dialogo che, in realtà, ha finito per divenire il modo di affondare gradualmente quello che di terribile la dittatura aveva creato.
La Spagna è una società di conflitti, stato contro autonomie, autonomia contro autonomia , micro autonomie contro tutti.
Molti studiosi e anche tante persone che ho conosciuto a Maiorca sono convinti che il non aver vissuto in modo diretto la prima e la seconda guerra mondiale, non abbia portato alla creazione di un “sentimento nazionale”.
Mi verrebbe da rispondere: e noi italiani che le abbiamo vissute ampiamente sulla nostra pelle queste due guerre siamo stati in grado di creare un “sentimento nazionale”?
Sia quel che sia, penso che ci sia un fondo di verità nella riflessione dei miei amici maiorchini, quello che sorprende è che solo grazie ad una causa avviata da alcuni giudici argentini, solo adesso si stia scoperchiando il coperchio che teneva chiusa una terribile pentola a pressione con i suoi terribili segreti.
Si deve al magistrato argentino Maria Romilda Servini de Cubria se queste storie terribili sono uscite dal limbo in cui giacevano.
La “magistrata” argentina ha raccolto il testimone da Baltasar Garzon che qualche anno fa (a torto o a ragione non so giudicarlo non conoscendo bene la vicenda) fu inabilitato dall’istruire la causa presso l’Audiencia Nacional.
La Servini prese il testimone a fronte delle querele presentate dai familiari e nel constatare che morirono anche dei cittadini argentini tra i tanti, aprì l’indagine.
La “magistrata” è in questi giorni a Maiorca per raccogliere le testimonianza di alcuni figli di persone cadute e scomparse che per l’età avanzata non possono recarsi in Argentina o a Madrid e per raccogliere le prove di DNA necessarie per preparare una richiesta ufficiale di esumazione dei resti dalle fosse comuni.
 Sono più di 40 i maiorchini che persero i propri genitori e nonni durante la repressione. Ma la realtà è molto più vasta.
L’Associazione “Memoria de Mallorca”  (www.memoriadelesilles.org) che da anni lotta quasi da sola perché si abbassi il telo di silenzio sulla scomparsa dei loro cari, ha raccolto centinaia di storie di vita  e testimonianza degli scomparsi e sono consultabili sul sito dell’Associazione.
L’associazione ha anche censito ben 44 fosse comuni che conterrebbero ben 2.200 corpi di vittime della repressione. Di queste 24 fosse sono nei cimiteri municipali, 12 si trovano in cunette e nei campi, 4 sulle spiagge  e altre 4 in pozzi.
Maiorca fu uno dei luoghi della Spagna in cui la repressione fu più crudele , tenendo conto che gli scontri armati durano appena 15 giorni.
Sono molte le storie di efferatezza documentate e che hanno avuto un grande impatto anche a livello mediatico, una ci riguarda da vicino.
Porto Cristo, è una bella e pulita località turistica, tutto è perfetto nel paese, tanto che davvero sembra difficile immaginare che negli anni della guerra civile, avvenne uno dei fatti di sangue più cruenti della guerra civile nelle Baleari.
Sulla spiaggia tranquilla di Porto Cristo i repubblicani del Comandante Bayo che tentavano di riprendere Maiorca,  furono affrontati, fermati e trucidati (vennero bruciati vivi)  dalle forze di Franco aiutate da alcuni prodi soldati italiani mandati dal nostro fascistissimo governo in ausilio delle armate di Franco.
Erano i soldati al soldo del così conosciuto “Conte Rossi”, e fu proprio lui a fermare l’ultima resistenza repubblicana in terra baleare.
Alcuni amici dell’isola mi hanno raccontato di come questi italiani venissero visti dalla gente del popolo come grandi seduttori e soprattutto percepiti come ricchi e nobili, tutti una sorta di Conte Rossi.
Molte donne si innamorarono dei soldati italiani, alcune lasciarono la miseria dell’isola per una miseria ancora più grande quella dell’Italia fascista.
Questo è solo un episodio di questa memoria “sommersa” che gradualmente grazie all’opera di alcune associazioni sta faticosamente venendo alla luce.
Un’altra storia è quella del fucilamento del sindaco repubblicano di Palma Emili Darder.
Il primo plotone di esecuzione si rifiutò di sparare , il sindaco era molto malato e venne fucilato su una sedia perché non aveva neppure la forza di tenersi in piedi. Nel cimitero di Palma , affianco al Muro della Memoria , è stata collocata una sedia che ricorda questa tragica storia.
Si scava nelle fosse comuni , in questi giorni sono stati esumati i resti delle prime tre vittime nella località di Sant Joan , ma si esumano corpi dai cimiteri alla ricerca non solo di desaparecidos ma anche di bimbi comprati , sottratti e venduti.
Un’altra associazione maiorchina sta tentado di portare alla luce un’altra parte terribile della storia recente spagnola, di cui abbiamo triste esempi in Argentina e Cile, la terribile storia dei bambini sottratti e venduti.

Qualche giorno fa la prima esumazione, il primo esame di poveri resti di storia prima che diventino polvere.

sabato 10 maggio 2014

Dalla parte dei vinti senza redenzione: I Giuliano-Dalmata.

I Giuliano – Dalmata non sono una razza di cani, ma sono certo che questo ormai lo sappiate tutti … o no ?
Se siete di sinistra, negli anni ve li hanno presentati come fascisti della prima ora, gente capace di tutto pur di vivere nell'agio e nella sicurezza, gente capace di vendere l’anima al diavolo per una casa con vista mare nell’Istria o nella Dalmazia.
Se invece siete di destra, meglio se di estrema destra, gli esuli Giuliano-Dalmata hanno rappresentato e ancora rappresentano per voi degli eroi, dei simboli da difendere ed inalberare di fronte al “pericolo comunista” che, si dice spesso e volentieri, è sempre più attuale (Mah !). Un esempio di italiche virtù nel paese del comunismo dal volto umano . Gente , che pur di non rinnegare il fascismo ha deciso di tornare in Italia e divenire esule in Patria.
Niente di più falso, la storia è un’altra e si scrive e si legge tra le pieghe delle piccole “storie di vita” che fanno la storia grande. Le storie di vita degli esuli.
Sono anche loro parte di quelle masse travolte dalla storia, di quei vinti senza redenzione di cui poche tracce troviamo sui libri di storia, anche se molti ce l’hanno fatta, sono diventati anche famosi, come ad esempio Sergio Endrigo.
Ma la loro storia in gran parte la ignoriamo , spesso per partito preso o per scelta ideologica, solo perché li ha seguiti in Italia l’ombra di uno stigma, l’essere “fascisti”.
La storia recente e alcune rivelazioni anche riguardanti noti personaggi della cultura germanica (vedasi E. Bohll),  hanno dimostrato che bisogna rileggere con criticità un periodo storico terribile.
Chi era il vero fascista dell’epoca? Chi faceva parte solo del partito per quieto vivere, per rendere sicura la vita della famiglia?
Quanti erano veramente “sovietici” nell’URSS? Quanti erano “comunisti” solo per paura?
La storia ci ha consegnato tante di queste storie, di questi fascisti e comunisti per convenienza o per paura.
Non tutti, purtroppo, siamo capaci di essere eroi, e non tutti, meno male, siamo in grado di divenire gerarchi di un regime dittatoriale.
Non voglio però addentrarmi ancor di più in questioni che fanno male e che vengono spesso e volentieri male interpretate, ognuno ha la sua idea , fatto sta che molti per colpa di un’idea, che fosse questa giusta o sbagliata, condivisa o meno, sono stati stigmatizzati e umiliati due volte.
Dallo stato in cui si sono trovati a vivere , la Yugoslavia  perché italiani e fascisti, e successivamente dallo Stato Italiano perché avversi al nuovo regime (perché sempre di quello si tratta, in questo caso una democrazia ma pur sempre un regime) che si andava costruendo e stabilizzando.
Maledetti della e dalla Storia che nessuno voleva e che mal si sopportavano.
Se volete approfondire la storia di quest’esodo e delle foibe, esistono al momento molte pubblicazioni.
Vi consiglio i libri di Raoul Pupo che ho avuto modo di studiare per un esame universitario, e vi consiglio altresì  di evitare i libri che sono frutto di costruzioni ideologiche di sinistra e/o di destra e di leggere liberi che raccontano le storie della gente comune travolta dalla grande storia. Gente che ha accettato per forza o scelta la sfida di una nuova vita.
Nell’ultimo periodo ho letto due libri che raccolgono storie dimenticate di questo esodo dimenticato.
Il primo è il famoso (o per alcuni famigerato) libro di Cristicchi Magazzino 18, che altro non è che un estratto dell’omonimo spettacolo che il cantante/attore sta portando in giro per tutta l’Italia, l’Istria e la Dalmazia.
Vale la pena leggere queste piccole storie raccolte direttamente o de relato da Cristicchi, senza pensare se l’attore sia di destra o di sinistra.
Cos’è il Magazzino 18 di cui parla Cristicchi? E’ il magazzino dove per anni sono state ammassate le povere suppellettili e i ricordi di chi ha vissuto questo esodo e per vari motivi non ha più potuto recuperarle. Memorie di gente comune che andrebbero perse se non fosse che, finalmente, Trieste ha un Museo di questa memoria non condivisa, proprio il Magazzino 18.
Un altro libro, meno conosciuto, è in realtà una graphic novel dal titolo Palacinche , Storia di un’esule friulana, di Caterina Sansone e Alessandro Tota. Caterina Sansone ripercorre a ritroso la storia di sua madre e sua nonna e del loro esodo attraverso una raccolta di documenti dell’epoca e un dettagliato lavoro di campo.
Come molti, le due donne,  partite con un lasciapassare dall’Istria,  dopo una notte a Trieste , vengono portate al campo profughi di Udine dove vengono smistate e mandate in Sicilia, dove restano un anno e successivamente  trasferite a Napoli ,dove, finalmente dopo una lunga permanenza nel campo di Capodimonte ricominciano a vivere come “persone normali”.
Le palacinche sono delle crepes tipiche sia dalla zona dell’Istria e della Dalmazia sia del Friuli, il nome è simile nelle due zone (Palacinche in friulano e Palacinke in Croato), nelle ultime pagine del  trovate la ricetta di questi gustosi dolci presentata dai disegni di Alessandro Tota.
Le storie di vita raccontate in questi due libri, ma di sicuro ce ne sono altri che non conosco, mi hanno portato ad approfondire maggiormente la storia dei campi profughi e con sorpresa ho scoperto che uno dei campi profughi era proprio nella mia città natale, Gaeta.
Quanti gaetani, giovani e meno giovani, ricordano o sanno che la Caserma Cosenz, uno dei luoghi simbolo di Gaeta dopo una costosa riforma lasciato li a morire, è stato uno dei luoghi che ha ospitato un campo profughi?
Parlando con i miei di questa storia dimenticata ho scoperto che non era l’unico luogo in cui vennero “ospitati” gli esuli, anche il Convento di San Domenico è stato uno dei luoghi di residenza degli esuli.
I miei mi hanno raccontato che molti lavoravano nelle costruzioni ed erano dei lavoratori instancabili, forse per paura o per orgoglio, e che spesso gli altri lavoratori si lamentavano perché nessuno poteva raggiungere gli “standard” dei fiumani e a loro volta avevano paura di prendere il lavoro. Ma c’era anche tanta solidarietà tra i gaetani e gli esuli.
Ricordo un episodio della mia infanzia: una donna già anziana che cammina su Corso Cavour con un fazzoletto in testa e io che chiedo a mia madre chi sia e mia madre che mi risponde: “ Sono le montenegrine”.
Probabilmente non erano montenegrine, ma erano parte di questa massa dimenticata dalla storia.
Sono certo che a Gaeta ci sono ancora figli, nipoti, e chissà magari ancora qualche voce diretta di quell’esodo terribile.

Mi piacerebbe raccogliere queste voci e portarle alla luce, così chi conosce qualcuno che abbia la voglia di raccontare la sua storia o la storia dei propri cari, mi contatti e magari può essere l’inizio di un lavoro che possa portare alla luce la voce di questi “sommersi” dalla Storia.

venerdì 18 aprile 2014

Mettiamo che ... (lettera di "un danno collaterale")

Mettiamo che io sia un padre di famiglia, che io abbia un mutuo, uno o piu' figli, che disgraziatamente lavori solo io a casa e che il mio lavoro sia necessario per vivere.
Mettiamo che, siccome sono un buon operaio e anche specializzato, mi venga proposto di lavorare in una grande opera infrastrutturale.
Mettiamo che, anche a me piaccia andare ai laghi in montagna o al mare e che mi possa anche piangere il cuore per la devastazione della natura.
Cosa fareste tra lo scegliere di restare senza lavoro o lavorare in trincea in Val di Susa?
Come altri sono una persona del tutto normale che non può permettersi di prendere posizione, non tutti sono famosi scrittori o cantanti o attori e non tutti possono o vogliono far parte della grande organizzazione "non violenta" che spacca e rispacca il centro della città in cui vivo.
Sono da condannare?
Allora condannatemi, per avere un'idea diversa, per pensare che la vita della mia famiglia sia più importante di una società che non si cambia con la violenza del piccolo o del grande.
Pensate che sia un crumiro? Che sia un venduto, un bastardo? Chi paga il vostro cibo, la vostra vita quotidiana? Siete antagonisti a cosa? Mi siete mai svegliati al mattino con l'angoscia, vera, di non dare da mangiare ai vostri figli?
E questa rabbia nei miei confronti perchè? Non capite che sono solo un "danno collaterale" sia per voi che per la Polizia o lo Stato?
Sono un danno collaterale come chi ha un negozio e che nella vostra ottica è "un nemico di classe" ( ma quale classe?) per non aver chiuso quel giorno?
Avete tutti le vostre ragioni, ma vi siete mai messi dalla parte delle "ragioni dell'altro"? Delle paure dell'altro?
O pensate che chiunque sia dall'altra parte sia davvero solo un nemico.
Ogni mattina mi alzo e vado a lavoro, passo attraverso la trincea, tra incappucciati e presunti eroi, e io solo come altri sono da biasimare, da umiliare e da attaccare con offese di ogni tipo, solo perchè non posso permettermi di non lavorare, solo perchè sono tra quelli che saranno considerati solo un "danno collaterale".
La prossima volta che mi vedete entrare in cantiere prima di sputarmi addosso tutto il vostro veleno, pensate a chi c'è dietro l'elmetto protettivo da lavoro, come io cerco di capire chi c'è dietro una maschera, un cappuccio o un casco integrale.
Non sono con lo Stato nè con la Polizia ma non sono neanche con voi che non avete rispetto per chi è solo "un danno collaterale".
Buona lotta (o guerra).

mercoledì 9 aprile 2014

Primi bagliori d'estate !!! Sole, mare e turbamenti della chiesa locale. E intanto la Catalunya ...

L'estate e' ufficialmente inziata a Maiorca, ieri le spiagge erano gia' quasi piene, e alcune ragazze gia' molto abbronzate.
E' bello stare in spiaggia in questi giorni perche' ancora e' possibile vivere e sentire il mare, si puo' leggere, scrivere, ascoltare i pensieri perdersi tra le onde.
Tra qualche giorno finalmente potro' iniziare a postare le mie riflessioni sulla Prima Guerra mondiale a partire dalla lettura del libro di Gaziel, reporter spagnolo, che ho quasi terminato di leggere.
Ma oggi non voglio parlare di guerre, stragi, incubi e altro.
Per mesi non ho affatto parlato di Maiorca, e' ora che ricominci a farlo, anche per dare qualche consiglio a chi voglia visitare l'isola e non desideri solo passare dodici ore a mare e otto tra pub e discoteche a Punta Ballena.
Sto per lanciare un nuovo sito similare a "transbalkanika" che sara' piu' che altro un'esposizione delle belle foto che ha fatto Clara negli ultimi anni con qualche storia a commento si chiamera "lanostramallorca" ed e' gia´ attivo sul web ma ancora work in progress.
Oggi invece vorrei approfittare di Maiorca per fare un po' di polemica.
La prima riguarda ahime' i sacerdoti che devo dire nell'ultimo periodo nell'isola stanno dimostrando un volto che poco piacerebbe al Papa Francesco, la seconda,  la futura "secessione" della Catalunya.
Iniziamo dai sacerdoti. Qualche settimana fa due sacerdoti dopo essersi dati del "maricon" (piu' che gay sarebbe l'quivalente di frocio o ricchione per intederci) si sono azzuffati davanti a tutti e denunciati a vicenda in Questura.
Si tratta di due attempati canonici, non due ragazzini,e il luogo dove e' avvenuta la rissa e' una delle Avenidas di Mallorca e quindi in pieno centro.
Alla base di questo episodio sconcertante probabilmente l'accusa da parte di uno dei due all'altro di essere gay e pedofilo.
Ora non voglio entrare nell'argomento penso che basti solo pensare a cosa puo' aver dedotto la gente del posto dopo aver visto i due simpatici uomini in sottana dare spettacolo.
I due nei giorni successivi, hanno poi riempito le pagine dei quotidiani con le loro dichiarazioni sconcertanti, questo fino a quando timidamente il vescovo gli ha detto di farla finita con le polemiche.
Cosa pensate sarebbe successo se due impiegati  funzionari pubblici o privati  fossero venuti alle mani in pubblico accusandosi di pedofilia? Quanto meno sarebbero stati rimossi o sospesi o trasferiti dall'incarico e ne sarebbe nata una inchiesta interna.
In questo caso nulla accade. Ognuno dei due ritorna al suo incarico, uno come Decano della Cattedrale (mica la chiesa di quartiere badate) il secondo presso la sua Parrocchia centralissima.
Cosa avranno predicato nella messa della domenica dopo il fatto? La pace , la tolleranza, il rispetto?
Intanto le chiese di Maiorca si svuotano sempre di piu',alcune parrocchie non riescono da anni a fare delle classi per le comunioni. La Chiesa muore e intanto pero' "il lavoro" dei messaggeri di Gesu' continua senza alcun vero controllo.
Giustamente e finalmente nell'impiego pubblico si vuole dare un freno agli stipendi e i premi ai dirigenti che falliscono la loro mission, non sarebbe il caso di fare lo stesso anche con i sacerdoti che falliscono la loro missione?
Faccio un altro caso. Oggi sul giornale leggo che un giovane sacerdote dopo appena un anno lascia il sacerdozio, sul giornale il vescovo dice che bisogna avere rispetto per la sua scelta dolorosa. La scelta sara' anche dolorosa non lo metto in dubbio, pero' per la sua formazione la chiesa ha speso soldi e impegno e se non e' cambiato nulla, nonostante la messa in stato laicale del sacerdote mi risulta che in qualche modo lo stesso conservi alcuni "diritti" e facilitazioni, tipo, l'insegnamento della religione nelle scuole.
Una volta, anni fa, i migliori pargoli delle famiglie che non si potevano permettere le scuole, mandavano i figli in seminario per farli studiare e per far avere loro un futuro. Non e' anche il caso di molti sacerdoti oggi. E' facile dire mi sono stancato, vado via, lo puo' fare una persona che ha un contratto? Che ha una famiglia?
Per finire la seconda polemica: il fervore che attraversa la Catalunya potera' probabilmente alla vittoria degli indipendentisti nel referendum, alla nascita di un futuro staterello balneare,e ... alla fine del Barça in quanto squadra di valore internazionale. Oppure non ci hanno pensato i tanti "cule'" (cosi' sichiamano i tifosi del Barça che hanno in questi giorni fatto un referendum per il nuovo stadio)? Chi vorra' venire a giocare in un campionato in cui dopo il Barça la squadra piu' forte e' il Girona o l'Hospitalet de LLobregat?
Ai posteri l'ardua sentenza.

venerdì 4 aprile 2014

L’Oblio della Grande Guerra. Quando si spengono le voci. Una riflessione del grande reporter Gaziel.

Sono passati cent’anni, un secolo lungo e travagliato, dall’inizio della Grande Guerra, quei quattro lunghi anni di morti assurde e drammatiche che hanno cambiato il corso della storia del Novecento, ma le storie di quei soldati morti in trincea sono, se possibile, ancor più vecchie, lontane, perdute.
Quando si parla della Grande Guerra sembra che si affronti un argomento riguardante la storia antica come le guerre puniche, qualcosa avvenuto così lontano nel tempo che si perde tra le sottolineature dei libri di storia, ammesso che si arrivi a studiare quel periodo.
Quando andavo al liceo, all’ultimo anno , concludemmo il programma di storia con la seguente lezione: “Prima guerra mondiale cause e conseguenze”. La seconda guerra mondiale non la studiammo mai, nè tantomeno qualcuno ci aiutò a capire perché realmente scoppiarono questi conflitti.
La damnatio memoriae veniva prodotta direttamente dalla scuola che ci doveva insegnare a comprendere il passato per decifrare il futuro.
In questi ultimi mesi ho avuto modo di seguire un interessante forum sulla Grande Guerra qui a Maiorca, mercoledì termineremo il ciclo vedendo il meraviglioso film di Monicelli “La Grande Guerra”. E’ stato interessante e stimolante perché mi ha consentito di studiare davvero per la prima volta quello che è accaduto in quei terribili anni e soprattutto di conoscere un punto di vista diverso sulla vita al fronte, quello del reporter.
La Spagna, per vari motivi che non starò ad approfondire, magari me ne occuperò in seguito, non partecipò attivamente alla Grande Guerra rimanendo neutrale, ma molti spagnoli direttamente o indirettamente presero parte comunque alla contesa, alcuni in prima linea come reporter, alcuni addirittura come reporter per caso come Gaziel.
La storia di Gaziel e dei suoi reportage per il giornale “La Vanguardia” è interessante. Trovatosi a Parigi per studiare filosofia, era, infatti, un filosofo, Gaziel si trova quasi per caso a narrare giornalisticamente il fronte e le sue tragedie, con uno sguardo a volte distaccato, a volte inevitabilmente empatico.
Gaziel entra nelle trincee, segue fisicamente lo spostamento del fronte e nel 1917 si imbarca in un viaggio incredibile verso il fronte balcanico, fino a raggiungere Monastir , in Macedonia, nel momento in cui i Bulgari completano l’assedio della Serbia.
Proprio questo incredibile viaggio cercherò di raccontare seguendo il suo racconto nei prossimi post.
E proprio da una riflessione scritta da Gaziel mentre ritorna dal fronte balcanico in nave da Salonicco verso l’Italia voglio iniziare questo viaggio nella memoria:
“ Quando si tratta dell’attualità, siamo curiosi e miopi come bambini, quando si tratta di quel che fu, indifferenti e freddi come divinità. Lo stesso accadrà con la guerra attuale, vista dalle generazioni future. Tra qualche secolo , i compendi di storia parleranno della nostra guerra come i manuali di oggi si riferiscono all’impero di Alessandro. Se la Germania trionferà scriveranno: “Nel 1914 , venne dichiarato un conflitto europeo che portò come conseguenza il predominio tedesco. Questo dominio durò fino al …, nella battaglia di …si pose fine al dominio …”
Se al contrario , trionferà la Quadruplice Intesa si leggerà:” Nel 1914, una coalizione anglo-latina-slavo-giapponese troncò il fiorire del rinascimento tedesco, che dal 1870 aspirava all’egemonia mondiale. Nonostante ciò , la coalizione che pareva assicurare la pace non durò molto tempo perche a causa di … i popoli del … entrarono in guerra.”.
Niente di più. E gli uomini di domani si sentiranno soddisfatti a leggere queste poche linee, che non lasciano intravedere nessuno dei nostri immensi dolori.
Nessuno si darà conto di cosa rappresentò il dolore vivo, la carne torturata, le anime immalinconite, la miseria e il terrore , quello che chiameranno solo “l’occupazione strategica della Serbia”.
Nè rimarrà memoria dei contadini di Murichovo che vidi erranti e affamati, senza patria, senza un luogo e senza nulla, trattati peggio delle bestie.
Quattro formule brevi e comode riassumeranno per gli uomini di domani l’immenso dolore dei nostri giorni, la sua contemplazione alla maggioranza  parrà pesante e inutile.”

Gaziel “De Paris a Monastir” ed. Libros de l’Asteroide , 2013

venerdì 7 marzo 2014

Il Risiko di Putin: appunti di geo(fanta?)politica.

Lo immagino così il mattino di Putin.
Sveglia molto presto, esercizio fisico, cibo nutriente ma sano e una ottima vodka che ci sta sempre bene,e poi via a lavoro.
Nella sua stanza, un tavolo enorme con una mappa dettagliata del mondo che ricorda quella del Risiko, indimenticabile gioco di strategia planetaria, con i suoi simpatici “carrarmatini”. Chi non ha mia anelato alla conquista della leggendaria e misteriosa Kamchatka e chi non è mai arrivato a difendere il suo immenso impero con appena un misero carro armato ?
Quante notti insonni sognando la conquista del mondo.
Putin è un po’ così , giocherellone, sognatore, utopista, macho, carismatico, magnetico, con una presa incredibile su molti dei suoi “sudditi”.
Lo immagino in vestaglia blu e bianca con la iniziale ricamate in oro, mentre sposta i suoi carrarmatini verso l’Europa e gli USA.
Guarda i fronti aperti e fa la sua mossa: << Oggi sposto un paio di carri armati verso la Moldova … la Transnistria deve essere mia del tutto … non solo di fatto ..>>.
Poi avanza ancora un po’  di più verso gli USA: << ma perché poi i miei antenati furono così miopi da cedere l’Alaska … riprendiamocela …”
Lo immagino così l’uomo che potrebbe cambiare lo scenario annoiato del mondo.
Ma lasciamo quest’immagine fumettistica e caliamoci nella realtà.
Quanto c’è di fantasioso nel Risiko di Putin? Quanto è reale?
Partiamo da una riflessione della signora Hilary Clinton che più o meno suona così: << Putin sta facendo quello che Hitler fece negli anni 30 del novecento con le minoranze tedesche di Polonia e Cecoslovacchia e che condusse alla seconda guerra mondiale>>, e cioè, giustifica l’invio di truppe in territori “irredenti” al fine di tutelare gli interessi dei russi che vivono in quelle zone in cui sono la maggioranza.
La storia non impara mai dalla storia è stato detto, e spesso si ripete per cicli.
Senza andare troppo lontano, c’è un altro riferimento storico più vicino nel tempo in cui riecheggiano le parole e le azioni poste in essere da Hitler e ora da Putin.
Qualcuno ricorda cosa diceva all’inizio dei conflitti nei Balcani Milosevic?
Più o meno le stesse cose e più o meno con le stesse parole. Riassumendo : “dobbiamo intervenire nella Krajna croata e nelle zone a maggioranza serba della Bosnia a tutela degli interessi e della vita dei serbi che li vivono e sono una maggioranza/minoranza minacciata”.
Era solo l’inizio, poi la guerra “etnica” divenne altro, una guerra di interessi contrapposti e “mafiosi”.
Ma iniziò così con le dichiarazioni ferme di Milosevic, dobbiamo intervenire per difendere il nostro popolo disperso e minacciato.
Putin afferma poi un’altra cosa che lo lega a infelici e tristi dichiarazioni di Milosevic: “ a difendere i Russi in Crimea sono gruppi di cittadini che si sono spontaneamente sollevati nella penisola a protezione dei propri interessi”.
Niente di più falso naturalmente, c’è un’evidente organizzazione “militare” dietro i sollevamenti, niente di improvvisato.
Ma la dichiarazione fa gioco a Putin e ricorda una seconda strategia di Milosevic.
Una delle strategie vincenti di Milosevic fu, infatti, quella di armare e “foraggiare” le truppe paramilitari di Arkan e Karadzic tra tutti nella Krajna croata i primi, nella Bosnia i secondi, per poi, in un secondo momento, quando non erano più utili alla causa, tagliare gradualmente loro l’appoggio militare e politico, in questo modo isolandoli e facendo ricadere su di loro la responsabilità dei terribili massacri avvenuti in Croazia e Bosnia.
Questa strategia di scaricamento della responsabilità è stata portata avanti anche dai politici che a lui si sono succeduti fino ad oggi. In sintesi questo è il frutto della strategia: “Non sono stati i serbi a macchiarsi del massacro di Srebrenica, ma i serbi di Bosnia”.
Quei serbi campagnoli nati in Bosnia e Croazia foraggiati e strumentalizzati dalla propaganda, convinti a lasciare le loro case, a fuggire nella “patria Serba” e poi trattati come figli di un “Dio minore”, mal visti da tutti, profughi in patria propria, un problema da nascondere.
Putin sembra giocare allo stesso terribile gioco.
C’è un disegno chiaro dietro le mosse del satrapo russo, un disegno di cui, probabilmente, in questo momento individuiamo solo i contorni.
Quando la situazione in Crimea si sarà in qualche modo definita, il fronte cambierà e si spingerà sempre più verso Occidente.
Ma in realtà il fronte si sta già spostando verso la Romania da anni. Già in questi giorni Putin ha dichiarato che quello che è successo in Crimea potrebbe succedere in Transnistria.
Se l’ha detto è chiaro che, in realtà, seppure in maniera “soft” sta già accadendo.
Da anni l’armata russa del leggendario generale Lebed di stanza a Tiraspol si sta preparando all’inevitabile, e la guerra civile moldava dei primi anni novanta, probabilmente è stato solo un “esercizio”, una dimostrazione di potenza in attesa di tempi migliori.
Ci si dimentica spesso, poi, di quel brandello di terra russa, Kaliningrad, posta come un cuneo nel costato dell’Unione tra Lituania e Polonia.
Cosa accadrà nei prossimi mesi? Quali saranno le strategie di Putin nel suo Risiko?
E la “disarmata” e “disarmante” Europa cosa deciderà di fare?
Concludo un po’ alla “Giacobbo” : “E’ davvero fanta politica pensare ad un’avanzata politico- militare strategica della Russia nel cuore della U.E.?”
Sottovalutare Putin significa sottovalutare la forza di un’immensa macchina di propaganda che colpisce e convince soprattutto quelle masse di popolazione povera e ancora poco “internauta” dell’infinita campagna russa e ucraina.
Le guerre balcaniche secondo Rumiz, sono state soprattutto una guerra tra campagna e città, tra cittadino e contadino.
A mio parere l’analisi portata da Rumiz può spiegare almeno una parte delle crescenti rivolte, con le dovute differenze politiche, economiche e culturali.
Intanto il Risiko va avanti.
Concludo con un’altra “giacobbata”: “ E se tutto, nella mente di Putin, fosse iniziato fin dalla richiesta di assegnazione delle Olimpiadi invernali di Sochi? Che fosse questo il trampolino di lancio verso l’Occidente? Il cavallo di troia di Putin?”.
Niente accade per caso nella storia, ogni rivoluzione, in un modo o nell’altro viene “guidata” dall’alto.
Chi ha sparato sulla folla di piazza Maidan?
Emergono i primi dubbi chissà se mai sapremo la verità.

Intanto il gioco continua, prego U.E. e USA fate il vostro gioco.

mercoledì 5 marzo 2014

Transbalkanika il mio nuovo sito sui Balcani !!!

Cari amici balcanofili e non,
da qualche temposto lavorando ad un sito dedicato completamente ai Balcani. Il sito e' ancora in pieno work in progress ma gia' potete trovare qualcosa che spero possa essere interessante, ecco di seguito il link:

http://transbalkanika.oneminutesite.it/index.html

Nella pagina principale trovate tutti i video che ho realizzato e postato su Youtube piu' qualche notizia e reportage nonche' il link a questo blog che diviene parte integrante del sito. Nella seconda pagina trovate uno spazio dedicato alle mappe interattive dei miei viaggi. Aprite il file in pdf e cliccate sui baloon troverete alcune brevi notizie sui luoghi visitati, cosi' per catturare la vostra curiosita'.
Immagino questi due luoghi, il blog e il sito come parti interagenti di un tutto, sperando quanto prima di convogliare tutto in un libro sospeso tra viaggio e antropologia.
Buona navigazione e buon viaggio.


martedì 4 marzo 2014

Da Chisinau a Tiraspol e ritorno. Welcome in Transnistria. (Oltre il fiume Nistru)

Un po’ di storia.

Raggiungere e attraversare la Transnistria è un’esperienza da provare, un salto indietro nel tempo, un viaggio ai confini dell’Europa, per certi versi un viaggio nell’assurdo. Ma andiamo con ordine.
La Transnistria, Transdniestria o, secondo l'espressione russaPridnestrovie  è uno stato indipendente de facto non riconosciuto a livello internazionale, essendo considerato ufficialmente come parte della Repubblica di Moldavia, governato da un'amministrazione autonoma che ha sede nella città di Tiraspol.
La regione, precedentemente parte della  Repubblica Socialista Sovietica Moldava (una delle repubbliche costituenti l'Unione Sovietica), ha dichiarato unilateralmente la propria indipendenza come Repubblica Moldava di Transnistria il 2 settembre 1990. Dal marzo al luglio 1992 la regione è stata interessata da una guerra che è terminata con un cessate il fuoco garantito da una commissione congiunta tripartita tra Russia, Moldavia e Transnistria, e che ha comportato la creazione di una zona demilitarizzata tra Moldavia e Transnistria comprendente 20 località al di qua e al di là del fiume Nistro.
Il nome della regione deriva, appunto, dal fiume Nistro. La Transnistria è infatti un'area posta sulla sponda orientale del fiume. Il nome letteralmente significa “Oltre il fiume Nistru” (Pridnestrovie)
La regione era popolata nell'antichità da Geti/Daci e da popolazioni iraniche. A questi subentrarono i romani. Alla fine del medioevo vi si trovavano tribù slave in movimento verso la penisola balcanica, nomadi turchi e pastori rumeni. Passò sotto il controllo della Rus' di Kiev e in seguito del Granducato di Lituania. Nel XV secolo, infine,  l'area finì sotto il controllo dell'Impero Ottomano. A quel tempo, la popolazione era scarsa, di etnia mista moldavo-rumena e ucraina, con presenza di nomadi tartari.
Alla fine del XVIII secolo ci fu una vera e propria colonizzazione della regione da parte dell'Impero Russo, con lo scopo di difendere i propri confini di sud-ovest. La conseguenza fu una consistente immigrazione di ucrainirussi e tedeschi.
Nel 1918 il Direttorato di Ucraina (a quel tempo indipendente) proclamò la sua sovranità sulla parte sinistra del fiume Nistru. A quel tempo, la popolazione era per il 48% moldavo-rumena, 30% ucraina e 9% russa. Un terzo della regione (la parte attorno alla città di Balta, oggi con maggioranza ucraina) fa parte dell'Ucraina. La regione divenne poi l'Oblast' Autonomo di Moldavia nell'ambito della RSS (Repubblica Socialista Sovietica) di Ucraina. L'entità fu trasformata in Repubblica Autonoma Moldava (RSS a sua volta), con capitale Balta, nel 1924. La maggioranza della popolazione era di madrelingua rumena e nelle scuole s'insegnava perciò la lingua rumena usando l'alfabeto cirillico.
La RSS (Repubblica Socialista Sovietica) di Moldavia fu istituita da una decisione del Soviet Supremo dell'URSS il 2 agosto 1940. Era formata da due parti: una buona parte della Bessarabia, sottratta alla Romania il 18 giugno a seguito del patto Molotov-Ribbentrop, dove la maggioranza della popolazione era di lingua rumena; e la parte occidentale della preesistente Repubblica Autonoma Moldava, mentre la parte orientale, con la precedente capitale Balta, era annessa alla RSS di Ucraina.
Nel 1941 le truppe rumene, all'inizio dell'Operazione Barbarossa, ripresero la Bessarabia ma continuarono l'avanzata oltre il confine storico lungo il corso del Nistru. La Romania annesse poi ad interim l'intera regione tra il Nistro e il fiume Bug meridionale, dove era presente una consistente minoranza romena, includendo la città portuale di Odessa, che attualmente fa parte dell'Ucraina. L'Unione Sovietica riguadagnò l'area nel 1944 quando l'Armata Rossa penetrò nel territorio facendo indietreggiare le Potenze dell'Asse.
La RSS Moldava fu oggetto di una politica di sistematica russificazione, ancor più dura di quella del periodo zarista. Il cirillico divenne la scrittura ufficiale della lingua moldava nella repubblica, mentre il russo era la lingua di comunicazione interetnica.
La maggior parte delle industrie che furono create nella RSS di Moldavia allo scopo di attirare immigrati dal resto dell'URSS, era concentrata nella Transnistria, mentre la parte della Moldavia a ovest del Nistro manteneva un'economia prevalentemente agricola. Nel 1990, la Transnistria rappresentava il 40% del PIL moldavo e produceva il 90% dell'energia elettrica dell'intera repubblica moldava.
La 14ª armata dell'esercito russo, che aveva sede in Moldavia a Tiraspol, rimase anche dopo la dissoluzione dell'Unione Sovietica per salvaguardare il più importante arsenale e deposito di munizioni in Europa. Il governo di Mosca avviò negoziati con le repubbliche di Moldavia, Transnistria ed Ucraina per trasferire i diritti sul materiale militare alla Russia.
Il 2 settembre 1990 fu proclamata unilateralmente la Repubblica Moldava di Transnistria (MRT). Il 25 agosto 1991 il Soviet Supremo dell'MRT adottò la dichiarazione di indipendenza. Il 24 agosto 1991 il parlamento moldavo votò la dichiarazione di indipendenza della Repubblica di Moldavia, il cui territorio includeva la Transnistria. Il parlamento moldavo chiese al Governo dell'URSS di iniziare le negoziazioni con il Governo moldavo e porre fine all'occupazione illegale della Repubblica della Moldavia e ritirarsi dal territorio moldavo, ritirando la 14ª armata da Tiraspol.
Le forze della 14ª armata però rimasero e agli ordini del generale Aleksandr Ivanović Lebed combatterono in favore dei separatisti della Transnistria. I separatisti poterono armarsi con le dotazioni della 14ª armata russa e svolsero un ruolo minore nella guerra. L'esercito regolare moldavo, trovandosi in posizione di netta inferiorità numerica e di armamenti, fu sconfitto con rilevanti perdite. Nel giugno 1992 le forze russe attraversarono il fiume Dniestr e occuparono, dopo aspri combattimenti che costarono la vita anche a civili, la città di Tighina, situata sulla sponda occidentale del fiume; l'evento è ricordato in Moldavia come Massacro di Tighina. I morti furono causati dal fuoco delle artiglierie russe contro gli edifici civili. Il cessate il fuoco fu accettato e siglato il 21 luglio 1992.
Dopo tale accordo, la Russia continuò a supportare de facto il governo separatista. Fu istituita una zona di sicurezza tra Moldavia e Transinistria controllata da una Forza di pace congiunta (335 militari russi, 453 militari moldavi e 490 miliziani della regione separatista), sotto la supervisione di una Commissione di controllo congiunta. Nel 1998 alla Commissione si aggiunsero 10 osservatori militari ucraini.
L'OSCE, che cerca di favorire un negoziato stabile tra le parti, ha avviato una missione in Moldavia il 4 febbraio 1993 e ha aperto un ufficio a Tiraspol il 13 febbraio 1995.
Nel febbraio 2003, gli Stati Uniti d'America e l'Unione europea hanno imposto misure restrittive contro la leadership della Repubblica di Transnistria.
 Negli anni è stato portato avanti un lungo processo di pace che ha interessato la Russia, l’Ucraina e la Moldova, ma i negoziati si sono arenati in ben due occasioni nel 2004 e 2005 per riaprirsi solo nel 2010, con il raggiungimento di pochi risultati, il più rilevante dei quali, la riaperura della tratta ferroviaria Chisinau - Odessa.
La Transnistria l'Abkazia el'Ossezia del Sud  dal 2006 hanno costituito la “Comunità per la democrazia e i diritti dei popoli”.
All'ultimo censimento del 1989, la popolazione della Transnistria era di 546 400 abitanti. Recentemente, c'è stata una consistente migrazione della popolazione dalla regione dovuta alle difficoltà conseguenti ai fatti del 1990 e al più completo isolamento internazionale. L'autoproclamata Repubblica di Transnistria non è riconosciuta né dalle Nazioni Unite, né da alcuno Stato Sovrano: questo è il motivo principale per cui una gran parte della popolazione è oltre l'età della pensione.
Le notevoli variazioni rispetto al censimento precedente fanno supporre che vi siano stati scambi di popolazione con la Moldavia a ovest del Nistro. In sostanza i moldavo/rumeni avrebbero abbandonato la Transnistria per trasferirsi ad abitare in territori controllati dal governo di Chisinau mentre gli slavi (ucraini e pieds-noirs russi) sarebbero migrati verso il territorio controllato dalle autorità di Tiraspol.
Attualmente il gruppo etnico moldavo/romeno, che forse ancora rappresenta la maggioranza relativa della popolazione della Transnistria, si presenta diviso tra fautori della Moldavia, fautori della grande Romania e sostenitori del governo in carica. Il gruppo etnico russo sostiene l'indipendenza della Transnistria o, in alternativa, l'annessione alla Russia. Gli ucraini infine sono divisi tra i sostenitori della Transnistria indipendente e i fautori dell'annessione all'Ucraina. In conclusione russi e ucraini, che uniti rappresentano la maggioranza assoluta della popolazione della Transnistria, sono accomunati dalla richiesta di un distacco definitivo dalla Moldavia. In questa situazione si inseriscono inoltre le istanze di altre solide comunità etniche straniere, ormai stabilmente insediate sul territorio, come i caucasici, i siberiani, gli armeni e i georgiani.
Un ruolo fondamentale nella recente storia della repubblica non riconosciuta l’ha avuta e ancora la ha la più importante azienda transnistriana  la “Sheriff”, l'unica autorizzata a esportare all'estero, il cui proprietario è il figlio maggiore Vladimir del presidente Igor' Nikolaevič Smirnov ex presidente della non riconosciuta Repubblica Moldava della Transnistria, carica che ha ricoperto dall'autoproclamazione di indipendenza della regione sino al 2011, quando venne battuto da Yevgeny Shevchuk. Nominato nel 1987  presidente del gruppo “Elektromaš” nella città moldava di Tiraspol, nel breve arco di due anni Smirnov si trovò alla guida del governo cittadino come presidente del soviet di Tiraspoli. Per il suo fare rude e sbrigativo si guadagno l'appellativo di “sceriffo”.
La "Sheriff" ha il controllo virtuale sull'economia dell'intera regione, dalla squadra di calcio della capitale FC Sheriff Tiraspol e del relativo stadio recentemente costruito, ha una catena di supermercati e di distributori di carburante, una casa editrice, una distilleria, un casinò, un canale televisivo e un'agenzia pubblicitaria.
Osservatori della Comunità Europea, esprimendosi in merito alla preoccupante situazione dell'illegalità e del mancato controllo delle frontiere di questa regione alle porte dell'Unione, sono portati a ritenere che parte non irrilevante del flusso economico nazionale sia direttamente collegato ai traffici illeciti che derivano dal radicamento del crimine organizzato di mafie attive in tutta la Russia e dalla particolare posizione di passaggio di questo territorio per il flusso degli stupefacenti, delle armi e del contrabbando; questa situazione ha portato la stampa a definire il paese il "buco nero d'Europa".

Il Diario di Viaggio
Il primo problema da risolvere, per chi voglia raggiungere la capitale della Transnistria,  è scoprire da dove partono i minibus per Tiraspol. Chiedo qualche informazione al Mercato centrale, mi indicano l’attigua stazione centrale. Penso di aver trovato i bus ma in realtà i mezzi per Tiraspol partono da un cortile interno la struttura della stazione centrale. Trovati i bus finalmente trovo anche il botteghino per i biglietti, e ho conquistato finalmente il mio posto nel minibus per Tiraspol.
Fa caldo, non tira un filo d’aria e nel pulmino non c’è aria condizionata, al momento della partenza viene chiusa anche la porta di accesso e l’aria entra unicamente attraverso una apertura del tettuccio. Poca aria e calda che poco dopo, comunque, rimpiangerò visto che una signora infastidita dal soffio d’aria chiede all’autista di chiudere il tettuccio.
Cercando di resistere al caldo terribile, seguo il percorso del minibus che, attraversata Chisinau, si dirige verso l’Aeroporto, mi guardo intorno per cercare di capire chi sono i miei compagni di viaggio. La maggior parte delle persone sono moldave a parte me, un gruppo di tre tedeschi guidato da una ragazza del posto e un giapponese. Il giapponese incuriosisce un po’ tutti, incuriosirà anche le guardie di frontiera.
Il minibus attraversa la campagna, supera alcuni piccoli paesi prima di raggiungere un primo sbarramento e una deviazione tra cui il più importante è Anenii Noi. Anenii Noi è una città della Moldavia capoluogo dell'omonimo distretto di 11.463 abitanti al censimento 2004. È situata nella valle del fiume Bîc, 36 km a sud-est della capitale Chişinău. La città è menzionata per la prima volta in un documento ufficiale nel 1731 col nome Paşcani pe Bîc. Nel 1837 era sotto l'influenza del conte Stuart che giurò fedeltà alla Russia degli Zar e nel 1856 venne distrutta dai Tatari di Bessarabia. Venne ricostruita a partire dal 1883 e sei anni dopo arrivarono coloni tedeschi che comperarono 1.715 ettari di terreno. Al censimento del 1910 in questo territorio risultarono due villaggi:Nicolaevca Nouă (dal 1926 Anenii Noi) con popolazione prevalentemente tedesca e Nicolaevca Veche (dal 1926 Anenii Vechi) con popolazione russa. I coloni tedeschi tornarono in Germania nel 1940, allo scoppio della seconda guerra mondiale. Ottenne lo status di città nel 1965).
Superata la piccola località si lascia la strada principale per deviare in una strada di campagna, ci troviamo nei territori contesi tra la Moldavia e la Transinistria, una sorta di zona cuscinetto demilitarizzata creata al termine della guerra del 1992 a ridosso della città di Bender conosciuta anche come Benderi o Tighina, e resa famosa ( o meglio famigerata) da Nicolai Lilin in Italia nel suo libro Educazione Siberiana.
Tighina o Bender o Bendery è la quarta città più popolosa della Moldavia. Come già accennato in precedenza, nel giugno 1992 militari russi per ordine del gen. Lebed, traversarono il Dniestr e dopo aspri combattimenti casa per casa che costarono la vita anche a civili, occuparono la città sconfiggendo le forze moldave. Molti civili abbandonarono la città fuggendo verso ovest. La città è oggi controllata dalle autorità della regione della Transnistria, la regione indipendentista della Moldavia, anche se essendo situata sulla riva destra del fiume Dnestr, la municipalità di Tighina, non è considerata parte della regione Transnistria né dal governo della Moldavia né dai geografi. Se si studia una mappa di Bender sul web è possibile vedere come il confine informale tra Moldova e Transnistria attraversi in più punti la città, rendendola un mosaico di enclave ed exclave.
La città di Tighina di fondazione romana cambiò il suo nome in Bender nel 1538 quando il territorio della Bessarabia fu conquistato dai musulmani. Proprio in quel periodo iniziò la costruzione della Fortezza che è divenuta il simbolo della città.
Mi sarebbe piaciuto fermarmi anche per visitare i quartieri di cui parla Lilin nel suo romanzo, ma avendo poche ore a disposizione ho deciso di dedicare il mio tempo alla capitale Tiraspol.
Il minibus, superato Bender-2, la stazione o meglio il binario di confine situato in territorio moldavo su cui transita il treno Chisinau – Odessa con fermata a Tiraspol, raggiunge il confine tra Moldavia e Transnistria (a Varnjta). Sulle difficoltà dell’attraverso del confine tra Moldova e Transnistria circolano molti racconti di viaggio alcuni probabilmente veritieri altri “gonfiati” e alcuni davvero poco proponibili. Che sia decisamente problematico l’attraversamento è indubbio ma che si debba chiedere l’intervento della mafia russa, come scritto da molti, o pagare mazzette ai poliziotti probabilmente è esagerato o forse dipende dal motivo per cui si entra in Transnistria.
E’ vietato fare foto e video ma riesco a rubare qualche fotogramma riprendendo con il cellulare  mentre faccio finta di telefonare. Al confine sembra di essere in una zona di guerra, due casotti di colore verde, nel mezzo uno spartitraffico dove ci sono due militari che controllano i documenti delle macchine che escono dal territorio indipendente. Questo e la polvere sono la porta d’accesso alla Transinistria.
Scendiamo dal bus, il conducente ci indica di andare verso il gabbiotto di destra. Con me ho un piccolo foglio che rappresenta il visto d’ingresso nella Transnistria.  Vi si trascrivono i dati personali, gli estremi del passaporto e il motivo della visita. Il piccolo foglio  verrà tagliato a metà, una parte rimarrà ai militari e la seconda allo straniero che dovrà presentarlo all’uscita. Vi consiglio di conservarlo con cura, perderlo comporterebbe una serie di problemi legali di difficile soluzione.
Nel primo gabbiotto una scontrosa poliziotta registra i dati del “visitatore”, poi riconsegna il passaporto. Non pensiate che sia finita lì, come pensavamo innocentemente noi stranieri. In effetti la poliziotta aveva sdegnosamente rifiutato il foglietto bianco, come se non fosse necessario, quindi pensavamo che la procedura fosse terminata li.
Scopriamo, invece, grazie all’autista del bus, per cui sicuramente i turisti sono una grande scocciatura, che dobbiamo fare una seconda fila. Nel primo gabbiotto, infatti, si viene registrati all’immigrazione, i dati, poi vengono trasmessi ai militari che sono allocati nel secondo gabbiotto i quali provvederanno ad apporre sul foglio la data e l’orario di entrata e uscita dal paese. Per l’uscita bisogna rigorosamente attenersi a quanto indicato sul foglio.
Esistono diversi tipi di visti d’ingresso nel paese, io ho scelto quello giornaliero che consente di risiedere sul territorio per 10 ore. Sul foglio viene indicato a penna l’orario entro cui bisogna lasciare il paese, in caso contrario bisogna registrarsi presso la polizia e trovare un albergo dove dormire. La seconda tipologia di visto viene rilasciata per soggiorni più lunghi e bisogna essere provvisti di una prenotazione alberghiera a garanzia del soggiorno, arrivati in albergo provvederà il personale alla registrazione.
Dopo un’ora finalmente riusciamo ad entrare nel “sacro suolo” transinistriano, un tuffo nel passato, nella “ostalgia” e perché no anche un senso abbastanza diffuso di insicurezza almeno al primo momento.
Il bus dopo poco più di un quarto d’ora raggiunge la periferia di Tiraspol. Una delle prime cose che vedrete è sulla sinistra, il complesso sportivo della squadra dello Sheriff Tiraspol. La Bolshaja Sportivnaja Arena, impianto inaugurato nel 2002 e dotato di 13.460 posti tutti a sedere e di un moderno impianto di illuminazione sorge all'interno di un complesso sportivo costruito tra il 2000 e il 2002 costituito da 8 campi di allenamento, appartamenti, hotel a 5 stelle, campus per i ragazzi delle giovanili.
Tiraspol (letteralmente città del Tyras, antico nome del fiume Nistro)  è conosciuta per essere una delle poche città  che non sono ancora largamente cambiate da quando facevano parte dell'Unione Sovietica. Sono, infatti, ancora presenti molte statue di Lenin e accanto a dipinti di Stalin ci sono addirittura quelli di Che Guevara.
Nel 1989 la città aveva una popolazione di circa 190.000 abitanti: il 18% erano russi, il 32% ucraini e il 38% moldavi (nel 1919 i moldavi erano il 42%). È stato stimato che dopo una certa crescita negli anni 1990 la popolazione sia di nuovo diminuita ai livelli del 1989, e secondo il World Gazetteer raggiunge circa 162.000 abitanti. Dopo la secessione dalla Moldavia molti moldavi sono infatti fuggiti, e si pensa che la popolazione moldava nella città sia scesa al 13% del totale.
Nonostante la città sia all’apparenza molto moderna ha una storia ricca e interessante. 
Nel XVI secolola zona di Tiraspoli era una zona cuscinetto tra i Tartari e i moldavi, lasciata deserta da entrambe le etnie. Solo nel 1792, dopo che l'Impero russo ebbe conquistato la strada verso il fiume Nistro, l'esercito russo costruì una fortificazione sul sito dell'antica città tartara di Hagi-bei, allo scopo di controllare il confine occidentale. Nel 1812 l'Impero russo aveva inglobato anche la parte orientale del principato di Moldavia, creando la regione della Bessarabia e la zona di Tiraspoli veniva, di conseguenza, colonizzata da Russi e Ucraini. La città ha anche una notevole presenza ebraica, nel 1897 si contano 8668 ebrei il 27% della popolazione. Dopo la Rivoluzione russa, come già ampiamente riportato,  la Bessarabia fu annessa alla Romania, Tiraspol fu temporaneamente capitale della RSS Bessaraba e nel 1929 divenne la capitale della "Repubblica autonoma socialista sovietica di Moldavia", restandolo fino al 1940. Nel 1941 la città cadde sotto l'invasione della Germania e passò sotto l'amministrazione rumena. Durante questo periodo quasi tutta la popolazione ebraica venne deportata. Nel 1944 la città fu ripresa dall'Unione Sovietica e fu ripristinata la Repubblica socialista sovietica moldava. Dal 1991 è la capitale della Transnistria.
Superato lo stadio si entra in una immensa periferia e anche in questo caso, come per Chisinau, è difficile scoprire dov’è il centro di Tiraspol. Non riuscendo ad orientarmi decido di scendere quando vedo scendere i ragazzi tedeschi e la loro amica, lo stesso fa il ragazzo giapponese. Chiediamo a loro dov’è il centro, la ragazza ci dice che l’abbiamo appena superato ma che se la seguiamo ci porterà lei. “Lost in Tiraspol”, e non è una gran sensazione.
Attraversiamo un viale alberato che incrocia quella che può essere considerata la strada principale, mi guardo intorno, ci sono pochi e piccoli negozi, qualche edificio di chiara impronta razionalista e poco altro.
La ragazza ci chiede se vogliamo cambiare i soldi. In Transnistria, infatti, almeno ufficialmente la moneta moldava non viene accettata, così bisogna cambiarla in rubli transnistriani moneta introdotta nel 1994 che ha corso legale soltanto nel piccolo territorio della repubblica separatista.
Arrivati ad un altro incrocio, la ragazza ci dice che abbiamo raggiunto il centro. Davanti a me si profila un’enorme piazza come quelle che siamo abituati a vedere nei documentari che ricordano i fasti dell’Unione Sovietica. Quelle enormi piazze in cui si svolgevano le grandi sfilate militari.  Sulla destra c’è una chiesa ortodossa con un attiguo edificio banco con cancellate verdi, a pochi metri il cinematografo e  il parco cittadino. Di fronte una piccola chiesa ortodossa “minacciata” da un vecchio carrarmato e il Memoriale delle vittime della guerra civile del 1990-92 tra Moldova e Transinistria.
La ragazza prima di salutarmi mi chiede se può aiutarmi in qualche altro modo. Le dico che la mia intenzione è quella di fotografare qualche monumento e visitare qualche museo. Lei mi risponde: “Good luck”. Chissà perché ma la cosa mi agita abbastanza, quel buona fortuna pronunciato con uno sguardo rassegnato sembrava foriero di qualcosa di molto pericoloso. Il ragazzo giapponese intanto ha già iniziato a fotografare. Io prendo la mia strada e mi dirigo verso la chiesa ortodossa. Faccio qualche foto cerco di entrare ma rinuncio perché c’è in svolgimento un matrimonio, allora  mi dirigo verso l’edificio bianco con i cancelli verdi. Nel fare le foto all’edificio mi rendo improvvisamente conto di essere osservato da una coppia che transita sul marciapiedi.  Noto che soprattutto l’uomo mi guarda con un certo fastidio e anche una certa rabbia. Improvvisamente mi si avvicina e mi dice qualcosa del tipo : “Spioni … ruski” o qualcosa del genere. Io rispondo “Turist” e lui ridendo sprezzante : “Turist”. A quel punto immagino che voglia mollarmi un bel pugno, ma la moglie lo tira via e lui va via continuando ad inveire.
Guardando quello che evidentemente deve essere un obiettivo militare o un edificio del KGB rifletto sull’ultima esperienza e mi riprometto di essere più discreto nel fotografare edifici, chissà che non riprenda qualche segreto militare. Mi sposto nel centro della piazza, il viale è enorme e attraversalo non è facile visto la velocità di crociera delle macchine. Finalmente ci riesco e faccio qualche foto nel Parco, dove tra il verde  spuntano alcune statue patriottiche.
Superato il parco su una piccola collinetta si staglia il Monumento alle vittime della guerra del 1990-92. Devo confessare che ho un certo fascino per i memoriali, per la loro magniloquenza, per la  loro maestosità, luoghi nati per essere considerati i templi della memoria e naturalmente della retorica.
Faccio alcune foto ad ampio raggio, ma quando cerco di fare delle foto ad alcuni particolari delle tombe e della fiamma eterna, noto un militare sotto un albero, deve essere una sorta di guardiano del luogo. Lo guardo, lui mi guarda, noto che è decisamente disinteressato e allora mi avventuro a fare delle foto più particolareggiate.
Superato il Memoriale, se si segue la strada in salita si raggiunge uno dei luoghi simbolo di Tiraspol, il Palazzo del Presidente nel cui piazzale antistante si staglia enorme, imponente e solenne, la statua in granito rosso di Lenin, costruita ai tempi dell’URSS e mai rimossa. La guardo e la riguardo non riesco ad allontanarmi, qui ancora è davvero possibile sentire “qualcosa di comunista” nell’aria anche se non sempre deve essere stata una bell’aria.
Dopo aver scattato alcune foto al grande padre, mi avvio verso il Parco, fa un caldo atroce e ho bisogno di bere, il Parco degrada verso il fiume, il Nistru che fa da confine tra Moldova e Transinistria. Attraverso una piccola area verde, faccio un foto ad un barcone abbandonato utilizzato dai pescatori e mi ritrovo sulla spiaggia di Tiraspol.
Non vi aspettate chissà che, c’è un piccolo bar in cui però è possibile consumare solo degli snack e un’area attrezzata per bambini. Il caldo è atroce anche qui, prendo una birra ghiacciata e me la bevo così di getto tanto che alla fine mi sento del tutto frastornato. Compro anche una bottiglia d’acqua e mi siedo a guardare il fiume, la fame avanza, e quando ormai sto abbandonando l’idea di mangiare sul fiume, ecco apparire nel calore una signora che con un paniere gira tra i tavoli con degli invitanti involti. La chiamo, la signora si avvicina e in russo mi chiede che cosa voglio. Sorridendo le faccio capire che non capisco e lei continua a parlarmi, allora utilizzo una delle poche parole che conosco, “Syr” che significa formaggio. Finalmente, sempre  sorridendo, mi propone una sorte di calzone al formaggio, ne prendo due. La donna mi chiede da dove vengo, gli dico che vengo dall’Italia e lei sorridendo dice qualche parola in una specie di italiano. Sarà la fame, ma i calzoni sono davvero buoni.
Ho necessità di bagnarmi nel fiume anche solo le gambe, il caldo non si e’ affievolito anzi. Così mi immergo nel fiume fino alle ginocchia bagnandomi la faccia nel sacro Nistru. Rimango lì circa un’ora, guardando la gente prendere il sole e fare il bagno. Dopo un po’ mi ridirigo di nuovo verso il centro sicuramente più rinfrescato ma con ancora un po’ di fame. Cerco un ristorante, ce n’è uno a bordo fiume che ha le bandiere di tutti gli stati della CSI, ma sta chiudendo, allora mi dirigo verso l’unico locale che è quasi sempre aperto in territorio moldavo, Andy’s Pizza. Decido di prendere un gelato e un caffè, la ragazza che serve ai tavoli parla solo russo e il menù è solo in cirillico meno male che ci sono le foto.
Dopo il gelato e il caffè cerco di farmi notare per pagare, ma sono scomparsi tutti, così entro nel locale e utilizzo una piccola parte dei miei rubli transinistriani, ne rimangono ancora molti spero di non riportare indietro troppi souvenir.
Il sole è ancora alto ma Tiraspol non prospetta altre grandi attrattive, girò ancora un po’ a vuoto alla ricerca di qualcosa da fotografare, da vedere, deluso mi avvio verso la stazione dei treni e dei bus e da lontano vedo che anche il mio amico giapponese sta lasciando Tiraspol.
Insieme cerchiamo di capire quando partirà il treno per provare l’emozione dell’attraversamento della frontiera con un  mezzo differente, ma le informazioni sono poco chiare e rischiamo di arrivare al confine troppo tardi, così optiamo di nuovo per il minibus.
La via verso il ritorno è più agevole così come il controllo alla frontiera, bisogna solo riconsegnare la parte del tagliando che è stata consegnata all’andata, ma qualcosa turba la calma apparente del minibus. I militari nel controllare i documenti notano qualcosa che non va in un agitatissimo signore, probabilmente di nazionalità rumena, e nella documentazione del ragazzo giapponese. Il militare li invita a seguirli. Rimaniamo in attesa in silenzio. Dopo cinque minuti ritorna solo il ragazzo giapponese, ha faccia di chi ha davvero passato un’esperienza infernale, sguardo basso e mesto, cerco di immaginare cosa sia potuto accadere in quel piccolo gabbiotto. Del signore rumeno, invece, non si hanno tracce.
Il minibus si ferma qualche minuto alla stazione dei bus di Bender e poi riprende la sua corsa verso Chisinau. Il breve viaggio in terra Transinistriana è terminato.
Il giorno successivo si ritorna a casa con nel cuore la voglia di tornare, per scoprire ancora di più della Moldova e del misterioso paese che non c’è, una delle poche patrie elettive degli ultimi comunisti.




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