venerdì 26 gennaio 2018

Anche questo è stato. La difficile memoria del Campo di Jasenovac in Croazia.

Se vi foste trovati a passare per il piccolo abitato di Jasenovac (Bosco di Frassini nella traduzione italiana), contea di Sisak, Moslavina croata  agli inizi degli anni sessanta del novecento, non avreste trovato altro che un piccolo paese affacciato sul corso del fiume Sava immerso in un paesaggio naturale idilliaco a pochi metri dall'isola di Ustica dove la acque della Sava incontrano le acque di un altro grande fiume balcanico, il fiume Una .

Nulla di più falso, di più fuorviante, visto che vi sareste trovati in uno di quelli che Pollack ha definito paesaggi contaminati, e cioè luoghi in cui incantevoli paesaggi, nascondono cicatrici e ferite nascoste della storia e che solo in alcuni casi riemergono alla memoria grazie alla creazione di memoriali ce ne raccontano la tragica memoria (Martin Pollack, Paesaggi Contaminati, Keller, 2016).
A raccontare e ricordare il Campo di Jasenovac e quello gemello di Donjia Gradina ora nel territorio della Republika Sprska di Bosnia, rimane poco o nulla, ed è solo grazie al piccolo museo e al memoriale che si può individuare quanto meno il punto in cui era stato creato questo terribile luogo di terrore.

Jasenovac , infatti, fu la sede del più grande capo di concentramento creato dallo Stato Indipendente di Croazia filo nazista e diretto da Ante Palevic e dai suoi ustaša, fu articolato in cinque campi.
I primi prigionieri furono rinchiusi nei campi di Krapje (Jasenovac I) e Bročica (Jasenovac II) il 23 agosto 1941.
Questi due campi furono chiusi nel novembre del 1941, mentre gli altri tre campi, allestiti in seguito, Ciglana (Jasenovac III), Kozara (Jasenovac IV), Stara Gradiška (Jasenovac V), continuarono a funzionare fino alla fine della guerra.
Uno dei campi, come anticipato sopra era quello di Donija Gradina, mentre sull'isoletta di Ustica, luogo in cui confluiscono le acque dei fiumi Sava e Una, fa installato un campo destinato ai cittadini di etnia Roma.

Jasenovac fu diretto tra gli altri dall'ufficiale ustaša Dinko Šakić, catturato in Argentina nel 1998. Chiamato a giudizio nel suo Paese insieme all'amante Nada Luburić, negarono ogni accusa, ma furono condannati a 20 anni di carcere (20 aprile). Fu diretto per due mesi anche dal francescano Miroslav Filipović-Majstorović, che vi era entrato come prigioniero per crimini commessi in precedenza. L'ex religioso e cappellano militare, già sospeso dalle sue funzioni dal legato papale il 4 Aprile del 1942, venne espulso dall'ordine dei francescani il 22 Ottobre del 1942. Nel 1946 venne giudicato colpevole da un tribunale civile Jugoslavo di Belgrado e condannato a morte per i suoi crimini.
Le stime del numero di vittime nel campo di Jasenovac differiscono enormemente. Sono molte e difficilmente verificabili le fonti da cui provengono le tristi statistiche:  una di esse indica il numero di morti in una forbice fra 77.000 e 99.000. Di questi, i serbi sono stimati fra 45.000 e 52.000 (su un totale di 320/340.000 serbi uccisi in Croazia dagli ustascia), fra 12.000 e 20.000 ebrei (su un totale di più di 30.000 uccisi), fra 15.000 e 20.000 Rom e fra 5.000 e 12.000 croati e musulmani oppositori politici o religiosi del regime ustaša. Molti di questi erano bambini di età compresa fra i tre mesi e i quattordici anni. Sono stati individuati i nominativi di 83.145 vittime, fra le quali diciannove italiani, diciotto uomini e una donna, deceduti tra il 1941 e il 1945, i loro nomi possono essere letti nel piccolo museo dedicato alla memoria del Campo.
Nella sponda serba del fiume su cui è costruito il campo, ovvero nella Republika Srpska (parte della confederazione della Bosnia ed Erzegovina), si è continuato a proporre la cifra di circa 600.000 vittime (elaborata dalla storiografia jugoslava e portata avanti fino agli anni Ottanta anche nelle altre Repubbliche).
Fu definito l’Auschwitz dei Balcani, o l’Auschwitz Jugoslava.
Di questo terribile campo però fino alla metà degli anni 60 non restava praticamente nulla perché, quando nell’aprile del 1945 le unità dei partigiani iniziarono ad avvicinarsi al campo, i supervisori del campo nel tentativo di cancellare le tracce, bruciarono tutto,.
Il 22 aprile, ci fu una rivolta di 600 prigionieri, 586 furono uccisi e 84 scapparono. Prima di abbandonare il campo gli ustaša uccisero i restanti prigionieri e diedero fuoco agli edifici, alle stanze dei militari e alle stanze delle torture. Quando in maggio i Partigiani entrarono nel campo trovarono solo fumo rovine a scheletri poveri resti delle centinaia di vittime.
Solo nel 1966  fu creato un Memoriale, una scultura disegnata dallo scultore Bogdan Bogdanovic a memoria delle atrocità commesse dal governo filonazista. Si tratta di un grande fiore di cemento, un Loto, che domina la vallata a memoria di quel che è stato. Nonostante sia una costruzione all'apparenza semplice racchiude significati simbolici profondi. Data la natura del testo non mi soffermerò molto sulla simbologia del fiore, chi fosse interessato può leggere di più sul "Fiore di Pietra" e sul suo autore a questo link: http://www.spomenikdatabase.org/jasenovec.

La storia travagliata della memoria del campo di Jasenovac, doveva arricchirsi, negli anni successivi alla costruzione del memoriale, di nuovi tentativi di insabbiamento nel corso degli anni 90 del novecento a causa della dissoluzione della Jugoslavia e della successiva "guerra civile".
Poco dopo l’inizio del conflitto, siccome nel nuovo nascente stato Croato, erano sempre più evidenti i tentativi di revisionismo storico, Simo Brdar assistente del direttore del Memoriale trasferì, nel 1991, gran parte della documentazione nella parte Bosniaca del memoriale a Donja Gradina, nel tentativo di salvarne le memorie. Nel settembre dello stesso anno le forze croate vandalizzarono i luoghi del memoriale.
Le memorie rimasero nella nascente Republika Sprska fino al 1999 , quando grazie ad un accordo nel 2000 furono trasferite allo United States Holocaust Memorial Museum e un anno dopo riportate finalmente al memoriale di Jasenovac
Nel 2004 iniziò ad essere portato avanti un progetto di recupero della memoria dei luoghi e delle memorie individuali di chi era scampato al campo grazie all'opera della nuova direttrice.
Il nuovo memoriale riaprì nel 2006 con una nuova mostra permanente, video e documentazione originale, e una riproduzione del treno che portava i prigionieri direttamente nel campo. Non mancarono, anche in questo caso, polemiche anche da parte di esponenti del mondo ebraico. Efraim Zuroff, uno dei cosiddetti "Nazi-hunter" (cacciatori di nazisti),  lo definì “postmodernism trash” e criticò la rimozione di tutti gli strumenti di uccisione e tortura utilizzati dagli Ustascia.

Nonostante tutto Jasenovac rappresenta uno dei pochi memoriali nei Balcani che racconta le atrocità commesse durante la seconda guerra mondiale.

E arrivarci non è facile.

(Dal Diario di Viaggio)
Sono fortunato, è una fredda ma soleggiata  mattina di sole di un mite febbraio.  Sono partito da Zagabria in treno per raggiungere dopo un paio d’ore la stazione di Jasenovac. Da tempo avevo intenzione di visitare il Memoriale, e il convegno sulla memorialistica legata alla seconda guerra mondiale nei Balcani a cui sto partecipando a Zagabria, me ne da lo stimolo e l'occasione.
E ci vogliono stimoli davvero forti per raggiungere Jasenovac, il viaggio infatti, non è agevole.
Parto in treno da Zagabria, il paesaggio che scorre davanti a miei occhi in alcuni tratti è davvero spettrale: grandi fabbriche abbandonate si alternano a case ancora distrutte da quella che avevamo definito “guerra civile”.
La cosa però più sconcertante è l’arrivo alla stazione di Jasenovac , stazione che in pratica non esiste.
Solo grazie al fatto che alcune persone stavano scendendo ho capito che eravamo arrivati. Non c’è marciapiedi, si scende  direttamente sui binari. Quello che doveva essere il caseggiato nuovo in ferro è completamente abbandonato, mentre il caseggiato in mattoni, la vecchia stazione porta i segni della guerra e dell’abbandono.


Per raggiungere il Memoriale non si attraversa il paese, si segue per un breve tratto la strada statale, in un silenzio quasi assoluto interrotto solo dall'abbaiare dei cani e dallo scampanare della chiesa del paese.
Dopo qualche chilometro finalmente arrivo ad un incrocio dove trovo le prime indicazioni che portano al monumento.

Il vasto prato che si stende davanti a me è ciò che resta della memoria del campo.  C’è un piccolo museo, purtroppo chiuso, e un percorso che porta verso il Fiore di Loto che rappresenta la memoria di quel che di terribile è stato.

Sul cammino si trova una riproduzione del treno che portava i prigionieri nel campo e poco altro.

La difficile memoria e la sua damnatio.
Pochi metri prima della conclusione del cammino verso il Fiore, c'è un piccolo laghetto e in bronzo una ricostruzione di quella che doveva essere la struttura del Campo.

Lasciato il campo, in un silenzio assoluto, si ritorna verso Jasenovac dove è possibile incontrare sul cammino un altro memoriale in questo caso più genericamente dedicato ai martiri del fascismo

 e si svolta a sinistra verso la frontiera con la Bosnia Erzegovina, Repubblica Spsrska.
Si attraversa dapprima l’isoletta di Ustica il punto che delimita il confluire delle acque dei fiumi Una e Sava, e dove era istallato un campo di concentramento destinato ai Rom (di cui non resta traccia né si riscontrano memoriali),

 e poi superato il confine, se si percorrono poche centinaia di metri si arriva al secondo memoriale che ricorda quanto accaduto in queste terre.

Il Memoriale che ricorda il campo di Donja Gradina, è rappresentato da un tronco di un grosso albero che sembra osservare  lo scorrere incessante del fiume.



Luoghi di memoria, di una memoria ancora adesso divisa, dove si sovrappongono differenti memoriali, di drammi che la storia ci ha appena aiutato a comprendere.

Ritorno sui mie passi e attraverso la frontiera. I soldati sorridendo curiosi, non penso passino molti stranieri a piedi da quel confine, mi chiedono da dove vengo e poi mi appongono il visto sul passaporto, avranno qualcosa da raccontare stasera.
A me non resta che camminare velocemente verso la stazione e cercare di prendere un treno che mi porti verso la vicina Novska dove dovrò cambiare convoglio.

Il treno si avvicina io attraverso uno dei binari e sollevo la mano come se stessi prenotando la fermata di un tram o di un bus, salgo a fatica , il dislivello (mind the gap direbbero gli inglesi) tra terreno senza banchina e treno è molto, e sono costretto quasi ad arrampicarmi.
Nel breve viaggio verso Novska, guardo osservo ancora una volta scorrere dal finestrino la wasteland croata, luoghi che l'ancora recente guerra civile ha svuotato di persone e memorie, lasciano a memoria di una nuova tragedia case che nessuno più abiterà.

E ricordo anche in questo caso come tutto questo è stato

venerdì 19 gennaio 2018

Sopravvivere a Srebrenica. "My Smile is My Revenge": la storia di vita di Dzeva Avdic.

Fin da quando in Italia giunsero le prime notizie sul massacro di Srebrenica,  dentro di me iniziò un lungo percorso di ricerca e riflessione che ancora non si è concluso. Partivo, in questo mio lungo e frammentario viaggio da una semplice domanda: “Perché”?
Una domanda solo all’apparenza semplice, perché cercare una risposta significava iniziare una sorta di viaggio iniziatico nei Balcani, dove nulla è facile e quasi tutto può essere interpretato.
E questo viaggio materialmente è iniziato più o meno dieci anni dopo il massacro, nel 2005, con i primi contatti con il “continente” ex jugoslavo.
Un viaggio graduale che mi ha portato, nel corso degli anni, partendo da Lubiana,  a raggiungere il confine tra Bulgaria e Turchia. Un viaggio che partendo dalla nazione meno complessa a livello etnico, storico e religioso mi ha portato al cuore dei Balcani: Sarajevo.
Dalla capitale bosniaca  per tortuosi cammini sono arrivato fino a Srebrenica che ancora adesso considero il luogo in cui per la prima volta l’allora Comunità Europea, ha iniziato a morire.
Nella sua incapacità di comprendere cosa stesse succedendo a Srebrenica e intorno alla città, la Comunità Internazionale ha dimostrato la sua inettitudine e in molti casi la sua cattiva coscienza.
Molto si è scritto e molto ho letto su Srebrenica, e naturalmente mi sono fatto una mia idea ben precisa su cosa è accaduto. Ho letto anche uno dei maggiori libri “revisionisti” su Srebrenica in cui la strage, seppure sminuita, reinterpretata e ribaltarla, viene comunque riportata nel tragico contesto in cui è maturata.
Ma quello che più di tutto mi interessa, e mi è sempre interessato è raccogliere le voci di chi ha vissuto “Srebrenica”, una memoria difficile  e controversa.
Nel mio cammino di ricerca ho avuto la fortuna di avvicinarmi alla realtà dei “sopravvissuti” di Srebrenica attraverso le testimonianze raccolte e rese pubbliche dall’Associazione “Zene Srebrenice” e soprattutto dalla signora Hajira Catic.
Poi un giorno ho scoperto che una ragazza bosniaca di cui ero diventato amico su un noto social network aveva scritto un  piccolo e meraviglioso libro su Srebrenica.
Di questo libro  ne ho seguito la genesi, alcune volte senza comprenderne completamente il messaggio, fino alla sospirata versione in inglese, e alla scoperta di un’emblematica storia di vita .
Il libro ha un titolo che da speranza : “My smile is My Revenge”.

In un periodo storico in cui i toni di qualunque confronto sono sempre molto alti e improntati all’offesa, già pensare che una persona che ha perso tutto, la propria casa, parte del proprio parentado, che ha vissuto la realtà di un genocidio, possa reagire a questo male assoluto con un sorriso, mi convinceva sempre di più sulle necessità  di conoscere questa meravigliosa  persona nella vita reale .
E quindi eccoci.

Incontro Dzeva  Avdic in una fredda giornata sarajevita, durante la notte è caduta la prima neve , e la città è in pieno movimento.
Dzeva, una ragazza con un sorriso solare, è  una delle “bambine di Srebrenica”, una delle sopravvissute  e sono curioso di sentire dalla sua voce il racconto della sua storia.
Mentre parliamo seduti al tavolino di un bar del BBI Centar ,con l’ausilio di una sua amica che traduce in bosniaco le mie domande, noto che Dzeva è spesso in tensione.  Non può immaginare quanto lo sia io che non sono avvezzo a interviste strutturate e spero che la tensione si allenti e che l'intervista diventi una chiacchierata tra amici.
La sua voce è calma, pacata, ma tradisce l’emozione del racconto di qualcosa di terribile e che non sarà mai possibile raccontare con distacco.
Le chiedo quanti anni avesse quando tutto è successo.
           Dzeva aveva quasi 6 anni, suo fratello tre anni in più. In modo quasi incredibile lei e il fratello sono nati lo stesso giorno anche se a distanza di anni. Questa causalità forse è anche causa del fortissimo legame che li lega, e di cui nel libro si parla in molte occasioni.
          Se si ha la fortuna di leggere il libro ci si accorge che l’intero lavoro è una forma di restituzione di quanto dato da parte delle persone che  Dzeva considera i veri eroi della storia, i suoi genitori, suo fratello.
" Voi siete il mio tutto. Voi siete i miei eroi. C'è solo una madre e un padre... Eroi che avete fatto tutto dal nulla. Non avevate frequentato le scuole superiori, non c'era lavoro, non avevamo una casa, neanche i vestiti,  né il cibo in abbondanza ... Ma noi avevamo loro e loro noi ..."
Ancora un estratto dal libro di Dzeva: "Questo libro è il mio debito! Questo libro è la mia fanciullezza e la mia fanciullezza è nelle mie ferite  ... un modo per cercare attraverso la scrittura la pace per la mia anima,  una cura per il mio cuore  e una punizione per il male".
Chi pensa di trovare nel libro una dettagliata cronistoria di quanto avvenuto a Potocari l’11 luglio del 1995 potrebbe rimanere deluso. Dzeva ci racconta sì cos’è stato Srebrenica, ma soprattutto cos’è stato della sua vita e di quella della sua famiglia dopo Srebrenica.
Per questo il libro di Dzeva è importante e dovrebbe essere letto da più persone possibile in un Europa che ha perso il senso e la misura dell’accoglienza  e della tolleranza.
Nei giorni successivi all’11 luglio inizia la fuga e il calvario della famiglia Avdic. Il padre viene separato dalla sua famiglia prima della partenza forzata verso la regione di  Tuzla nella neonata Repubblica di Bosnia Erzegovina, il fratello si salva solo perché nascosto dalla madre sotto le gambe.
Come molti altri Dzeva e la parte femminile della sua famiglia vengono deportati, e cambiano "casa" ben nove volte.
Deportati a Potocari dal loro villaggio Zeleni Jadar, passano le  prime due notti nel campo e poi il 13 luglio vengono letteralmente spinti verso i bus  dove gli uomini vengono separati dalle donne .E qui che la famiglia si divide,  il padre di Dzeva e il nonno fuggono nei campi e si arruolano nella "resistenza".
Il bus li porta nei paraggi di Kladanj (a Tisca) situata nel territorio libero ma che può essere raggiunta solo attraversando a piedi  una piccola porzione di territorio serbo.
Da Kladanj raggiungono  l'aeroporto di Dubrave vicino al villaggio di Zivinice, e da li in bus Lukavac, sostando più a lungo in una  località chiamata Devetak.
Ed è lì che vengono raggiunti dal padre che credevano morto. E' l' undicesimo giorno dopo Srebrenica, il calvario continua.
Dopo qualche giorno ritornano a Zivinice in un luogo chiamato Durdevik dove occupano una casa serba abbandonata. Durdevik era, infatti, un piccolo villaggio serbo, ma coloro che ancora vi vivevano presto lo abbandonarono. Uno dei tanti frutti avvelenati della cartografia di Dayton, dello scambio di enclaves e territori in cambio di una fragile pace.
La vita a Durdevik in qualche modo ricomincia, Dzeva torna a scuola, ma, niente è come prima. Racconta : "mi sentivo come se vivessi in un corpo morto".
A Marzo 1996 i genitori decidono di spostarsi a Sarajevo, ma Dzeva raggiungerà il padre e il nonno con la madre e il fratello solo al termine dell'anno scolastico.
Anche in questo caso trovano alloggio in una vecchia, distrutta e abbandonata casa serba,  nel piccolo villaggio di Krivoglavci vicino  Vogosca, piccolo paese sulla strada per Zenica poco fuori dall’area urbana  di Sarajevo: " Non era possibile trovare nulla ovunque ... vivevamo in una sorta di terra desolata ... la casa era semidistrutta , i vetri inesistenti , il pavimento collassato, il bagno era inadeguato e si trovava nel garage, non c'erano stoviglie, nulla ...".
Il racconto di Dzeva affronta molti nodi della vita “dopo Srebrenica”.
Il primo è quello riguardante la perdita della propria terra, del proprio parentado, della propria casa e come nel caso della famiglia Advic, la paradossale necessità di occupare una casa precedentemente occupata da una famiglia serba, come accade dapprima a Durdevik e poi a  Vogosca.
Questo vivere nella “casa del nemico” e cosa significhi nella vita quotidiana, viene spesso evidenziato da Dzeva nel suo racconto. Forse è anche il vivere una casa che non potrà mai essere propria che porterà Dzeva a vivere sempre più con un senso di precarietà la vita dopo Srebrenica. E anche per questo l'acquisto di una casa dopo 18 anni dall'addio alla casa di Srebrenica, l'8 settembre 2010, diventerà per tutta la famiglia una sorta di rito di passaggio.
Ma torniamo ai primi mesi di vita a Vogosca. La vita deve andare avanti e in qualche modo prosegue anche se tra tante sofferenze, rinunce e umiliazioni. Dzeva e gli altri ragazzi devono percorrere molti chilometri a piedi per arrivare a scuola, percorrendo la strada principale, non importa se ci sia il sole, la pioggia o la neve. A scuola a causa delle loro povertà spesso sono derisi dagli stessi maestri, ed inizia ad emergere lo "stigma di Srebrenica"
La vita scolastica e relazionale di Dzeva , infatti, è piena di queste piccole grandi umiliazioni, spesso legate proprio alla sua provenienza.
E questo è un altro nodo fondamentale: come i sopravvissuti a Srebrenica siano stati e sono ancora "vissuti" dal resto della popolazione bosniaca.
Dzeva racconta come l'essere sopravvissuti a Srebrenica venga visto con disappunto da parte di molti, anche da parte di chi ha subito un lungo assedio da parte dei serbi di Bosnia.  Soprattutto nella sua carriera universitaria le umiliazioni saranno molte come quella volta che un professore le disse : " Voi di Srebrenica siete solo capaci di supplicare e piangere".
Che, non solo nella Repubblica Sprska, ma anche in Bosnia Erzegovina ci sia in atto un vero e proprio tentativo di minimizzare quanto accaduto a Srebrenica e come venga quasi del tutto ignorato quanto accaduto da parte dei giovani nati a ridosso o successivamente al genocidio, si evince da questo episodio della vita universitaria raccontato da Dzeva:
" Alcuni studenti aspettavano di sostenere un esame, un ragazzo arrivò di corsa e sussurrò ai suoi amici "-Nessuno passerà l'esame se non sa quando è  caduta di Srebrenica - ... Io quasi saltai in piedi mi guardai intorno ... per la prima volta mi sentii orgogliosa ... c'era qualcuno che non aveva dimenticato  ... ma successivamente vissi un vero e proprio shock ... molti dei miei colleghi di corso non conoscevano la data della caduta di Srebrenica ... ed erano passati soltanto 10 anni ... iniziai a chiedermi cosa sarebbe accaduto tra 40-50 anni "
Le umiliazioni continuano nel primo anno di lavoro: " Uno dei colleghi mi chiese: - Da dove vieni? -  io dissi "Srebrenica" . Ci fu silenzio e molta tristezza nei loro visi ... poi una collega mi disse con disprezzo:  "perché non ritorni a vivere li ... ?” …"perché non abbiamo più una casa lì ... " La sua risposta fu terribile " bene, non ne avrai una qui sicuramente".
La chiacchierata va avanti tra qualche difficoltà linguistica e qualche sorriso, e ci avviciniamo verso la fine, ed è ora il momento di affrontare un argomento sicuramente difficile ma che è centrale per comprendere l'importanza del racconto di Dzeva:  il suo rapporto con Srebrenica, e in particolare con Potocari luogo di memoria e di memorie.
Dzeva racconta di come il libro sia scaturito proprio dalla sua  prima visita a Potocari,  divenuta una sorta di liberazione:
"Non ritornai a Potocari fino all'11 luglio del 2013. Il primo passo fu molto difficile le mie gambe sembravano piegarsi,  erano pesanti e mi sentivo come se tutto il corpo non fosse mio ... avvertii un forte dolore al petto ... l'aria mi sembrava pesante come la pietra e dolorosa come una ferita... Dopo la visita non riuscivo a smettere di piangere ... ma fu in quel momento che capii che dovevo fare qualcosa per tutte le persone che giacevano a Potocari ... dovevo parlare ... quanto accaduto non doveva essere dimenticato ... e allora mi venne l'idea del libro ... come una restituzione".
 Il racconto di Dzeva conferma, come se davvero ce ne fosse bisogno,  che Srebrenica sia “accaduta”.
E questa non è una riflessione banale, perché il tentativo di rivedere e di sminuire quanto accaduto a  Srebrenica esiste ed è molto forte, ed è ancora forte anche in molti ambienti dell’ estrema sinistra in Italia.
Rivolgo a Dzeva una domanda proprio su questa pubblicazione uscita in Italia qualche anno fa. Il titolo del  libro in questione è  "Srebrenica: come sono andate davvero le cose"  un libro uscito in Germania e edito in Italia nel 2012, gli autori sono Alexander Zorin e Zoran Jovanovic. In quarta di copertina diviene chiaro qual 'è il messaggio del libro : " La versione ufficiale è una menzogna propagandistica ... in questo libro si dimostra che il massacro c'è veramente stato ma fu un massacro ai danni dei serbi".
Il libro, le spiego, ha avuto un certo successo ed è stato distribuito anche in grandi librerie italiane.
Chiaramente la reazione di Dzeva è di sorpresa e subito dopo di dolore visto che probabilmente questo dimostra come non solo in Italia ma nell'intera Europa Unita non si sia davvero compreso  cosa sia successo in Srebrenica.
Seppure la Bosnia e l'Erzegovina siano  terre "martiri" in cui ancora oggi si è alla ricerca dei resti materiali dei tanti che da una parte e dall'altra sono stati uccisi solo a causa della loro provenienza religiosa o culturale (si veda il caso della fossa comune rinvenuta ad Ahmici a pochi chilometri da Travnik), non si puo’ negare che a Srebrenica ci sia stato una vera e propria gradualita’, un processo che ha portato alla costruzione e alla legittimazione della strage.
Alla fine concordiamo sul fatto che è giunta l'ora in cui il giorno della memoria che ricorda Srebrenica, l' 11 luglio, diventi un giorno della memoria europeo, e non soltanto una memoria “locale” e che in Europa Occidentale si inizi a visitare non solo Auschwitz ma anche Srebrenica, Potocoari e  il museo del genocidio che si trova a Sarajevo.  Questo per comprendere cosa storicamente e’ avvenuto, quali e di chi sono le colpe, comprese quelle dell’Europa e della NATO naturalmente.

Che l'11 luglio diventi un giorno della memoria universale per ricordare che " ... siamo sopravvissuti ...  e che siamo qui a cambattere la nostra battaglia ... a mostrare al mondo la nostra forza e il nostro cuore di acciaio ... Noi i sopravvisuti siamo stati uccisi comunque ... perchè saremo marcati per sempre ... anche se il sinonimo per Srebrenica è "la lotta" ... Noi popolo di sreberenica siamo obbligati a parlare, a scrivere, e a ricordare , per avere vendetta con le parole e con con l'odio o le armi."

venerdì 12 gennaio 2018

Dopo un lungo silenzio !!!

Salve a tutti,
dopo un lungo silenzio eccomi qui. Non è la prima volta, ma devo arrendermi non riesco a mantenere una periodicità nella scrittura del blog. Questa volta di tempo ne è passato tanto, troppo, che quasi stavo pensando di chiudere il blog.
Dei  miei viaggi di questi ultimi mesi ho parlato e poco su facebook pubblicando alcuni album fotografici, e quasi nient'altro.
Di alcuni poi non ho ancora neanche pubblicato una foto, come ad esempio il breve viaggio in un mondo a parte come l'Isola di Man.
E manca completamente la Bulgaria che negli ultimi mesi è diventata il paese che più ho visitato nella mia vita dopo la Bosnia, penso e la Spagna per ovvi motivi.
Il 2018 si apre con la voglia di riprendere il viaggio con voi con un formato più snello, molte più foto meno parole ... vedremo.
Vorrei immaginare questo 2018 come un anno di rivelazioni, come le wunderkammern del tardo 1600 , il museo del mondo, la raccolta di memorabilia che i viaggiatori raccoglievano durante i loro viaggi e che grandi eruditi come Athanius Kircher collezionavano.
Una collezione di memorie di viaggio.
Ci riuscirò, seguitemi ...
Per ora vi annuncio che in questo periodo di riflessione sono però riuscito a pubblicare almeno un libro di racconti "L'Uomo di Selo e altre solitudini balcaniche"  che racchiude molto dei miei viaggi e delle mie percezioni spero vi piaccia lo trovate a questo link:
https://www.amazon.it/Luomo-Selo-altre-solitudini-balcaniche-ebook/dp/B078VYNX9Y/ref=sr_1_1?s=digital-text&ie=UTF8&qid=1515791647&sr=1-1&keywords=damiano+gallinaro

E' ancora disponibile il mio unico romanzo finora pubblicato " L'Isola di Brumalia" , uno dei racconti contenuti nella raccolta "L'Uomo di Selo" è il suo ideale seguito o spin off:

https://www.amazon.it/LIsola-Brumalia-Gallinaro-Damiano-ebook/dp/B00HUUSG8Q/ref=sr_1_2?s=digital-text&ie=UTF8&qid=1515791647&sr=1-2&keywords=damiano+gallinaro

Per ora è tutto.
Sretan put (Buon viaggio)

Beldocs festival tra memoria e attualità? E se quello che vediamo non fosse davvero "fiction"?

Si è aperto mercoledì con la proiezione di "Another Spring", film serbo in prima visione su come la Jugoslavia nei primi anni se...