lunedì 31 dicembre 2018

Sulla strada: viaggiatori, stranieri, migranti.


Immaginate di trovarvi su una strada che attraversa un bosco, o un campo. Immaginate di essere rilassati al volante della propria macchina, è estate, il vento vi scompiglia i capelli mentre allungate il braccio fuori da finestrino. Odori e suoni della natura tutto intorno. Pensate di essere completamente soli in quel susseguirsi di colori e suoni, poi però qualcosa appare da lontano, più vi avvicinate più quella macchia scura prende forma, ed è la forma di un uomo. Un uomo che chiede un passaggio al bordo della strada.

Fermo immagine.

E’ un uomo al massimo sulla trentina, ha una t-shirt come ce ne sono tante e come vengono indossate da tanti, i jeans un po’ lisi, e il suo viso traspare la stanchezza di chi ha viaggiato tanto e ora non ne ha più. Un piccolo zaino in spalla e nient’altro. Siete soli in questa campagna solitaria che, ora che siete di fronte alle vostre paure, vi sembra sempre più desolata. E quell’uomo vi sembra sempre più pericoloso, si trasforma sempre di più e da viaggiatore diviene sempre più uno straniero, un migrante, un clandestino.

E così passiamo oltre non guardando nemmeno dal finestrino retrovisore.

Così facendo ci siamo tolti da un potenziale pericolo, ci siamo allontanati da un potenziale elemento perturbatore della nostra pace, del nostro viaggiare in tranquillità verso una meta più o meno definita.

Ora torniamo indietro e per un attimo mettiamoci nei panni dell’altro e scopriamo chi è.

Si tratta di un uomo sulla trentina, un uomo stanco dal tanto viaggiare, che ha una sola necessità: di fermarsi ovunque sia possibile, solo per bere dell’acqua, mangiare qualcosa, qualunque cosa. Da dove viene? Dai tratti somatici potrebbe venire dalla Siria, o dalla Turchia pur non essendo turco, potrebbe essere un curdo, forse non un afghano.

Un viso, comunque stanco dalla guerra e dal viaggio.

Cosa unisce allora queste due persone completamente diverse che appena si sfiorano, che si guardano appena di sfuggita nel passare della vettura? Cosa tiene insieme le loro storie seppure così lontane, diverse, irriducibili? E’ la strada e il viaggio che ne è parte.

Non avete mai pensato ai migranti come a dei viaggiatori vero? Eppure è proprio così sono viaggiatori come me e te, anche loro si mettono in viaggio verso una meta, ma a differenza nostra, ma forse solo in parte, non conoscono la meta, né tantomeno il mezzo di trasporto, e del viaggio hanno solo una mappa approssimativa. Eppure questo sono e non altro, dei viaggiatori. Quasi sempre dei viaggiatori involontari, che sono costretti a mettersi in viaggio. Come accadde a Maria e Giuseppe sono costretti a scappare verso un altro Egitto, per trovare salvezza, per poi sperare, come la sacra famiglia di poter tornare a casa.

Ecco in comune oltre al viaggio hanno con noi una casa. Ma quale casa?

Ogni comunità, ogni cultura, ha un differente concetto di casa. Ci sono molte culture per cui la casa non è l’ambiente interno, dove si dorme soltanto, ma il giardino, lo spazio comune, dove si vive insieme alle altre famiglie, agli altri membri della comunità. La casa è dove c’è il cuore, l’affetto, i cari.

Al ritorno dal nostro viaggio per quanto lungo e travagliato possa essere, quasi sempre, però scelto volontariamente  da noi, dalle nostre aspirazioni, al netto degli imprevisti, comunque torneremo a casa, ci saranno i nostri parenti,  i nostri amici, che ci avranno pensato e si saranno preoccupati in silenzio durante la nostra assenza e che attenderanno con curiosità il nostro racconto.

Spesso chi lascia il proprio paese per necessità si pone come prospettiva il fatto drammatico di non tornare più a casa, di non poter più vedere i propri cari, di non abitare più il giardino, di non sentire più le voci che rendono unico il luogo chiamato casa.

E allora portano con sé qualcosa che li possa avvicinare a loro, qualcosa di così banale per noi che il fatto stesso che un altro diverso da noi possa “possedere” il medesimo oggetto, ci fa rabbia. “Ecco guarda ha anche un cellulare”. Parole dette così, buttate senza alcuna riflessione, tanto poi la nostra macchina scatta via e ce ne dimentichiamo, ma nel frattempo abbiamo il tempo di scrivere sui social “Vergogna gli paghiamo anche i cellulari … avete visto?  Di ultima generazione.”

E non ci viene neppure in mente che quel cellulare, quell’uomo che lascia tutto per l’ignoto, potrebbe averlo comprato prima di partire, non per vezzo, né per divertirsi, ma perché ne ha necessità, la necessità di comprendere dove si trova nella notte buia al confine tra Grecia e Macedonia, o Turchia e Bulgaria o ancora tra Serbia e Ungheria. E magari gli serve per chiamare pochi secondi a casa solo per dire : “Sono vivo e voi? Come state?” sperando sempre di sentire dall’altra parte la voce amata. E può servigli perché no, per fare rete con i disperati che con lui si arrampicano sulle montagne, attraversano deserti, si aggrappano di notte alle ruote di camion che attraversano confini che noi solo abbiamo creato.

E così infatti, la terra vista dall’altro non ha confini, è puro territorio, siamo noi a costruire delle mappe che colmiamo di significato, facendole divenire qualcosa di unico, sacro, intoccabile.

Finzione, perché per quanti segni possiamo iscrivere sul territorio, quel territorio non sarà mai nostro.

Ma è così che lo vediamo, qualcosa di sacro e intoccabile, non passa lo straniero, qualunque straniero?

Sans papiers.

Probabilmente quest’uomo di cui abbiamo ormai fissato il fermo immagine è un sans papiers, un migrante, un clandestino, quindi, un criminale.

Il viaggiatore della storia che vi sto raccontando sono io che passo con la mia macchina sulla strada che da Assothalom in Ungheria porta al confine con la Serbia  e al primo muro europeo ricostruito, l’uomo sulla strada è uno dei tanti che è sfumato sul margine della strada (se vi va potete guardare il breve video realizzato nel 2015 a questo link https://www.youtube.com/watch?v=MZ-zrg3_NQ4&t=360s). Molti si sono nascosti per paura, altri si sono accampati sfiniti a pochi metri da quel muro finalmente superato.

Ma c’è chi non ce l’ha fatta ed è rimasto al di là del muro, nella terra di nessuno.

E per la maggior parte delle autorità quest’uomo come tanti altri non ha un documento, è un san papier.

E il più delle volte non è vero, e quando è vero non l’ha perso nel momento in cui chiedeva il conto al ristorante, o poneva con poca grazia il suo soprabito su un divano o un sedile di un treno facendo cadere inavvertitamente il passaporto.

Se quest’uomo ha perso i suoi documenti è perché nel viaggio può essere stato malmenato, derubato, offeso, ricattato, e peggio viene fatto ad una donna, molto peggio.

Ma comunque quest’uomo nasce e viene registrato e quando si raggiunge l’età prevista dalla legge del proprio stato, dotato di un documento legale e riconosciuto.

Ma questo è il punto: riconosciuto da chi?

Perché sperando che nessuno lo abbia malmenato, violentato, ricattato, umiliato nel cammino e che quindi quest’uomo arrivi davanti ai guardiani del muro con il proprio documento, li vivrà la più grande delle umiliazioni: “Il suo documento non ha alcun valore per il nostro paese … non importa lei chi sia… per essere riconosciuto parte del nostro paese deve avere un altro documento … non basta … non ha un visto di soggiorno? … San Papier …"  Si ricomincia da capo … non esisti … impronte digitali … schedatura … nome … cognome … clandestino … criminale.

E poi finisce che criminale davvero senti di essere diventato e che per vivere alcune volte devi diventarlo.

Ti chiudono in un posto che cambia nome a seconda del governo in voga nel periodo, ma che ha sempre un nome che lo rappresenta: Campo.

E non è il campo in cui giocavi da ragazzo o dove sognavi di essere un grande calciatore.

Somiglia sempre di più ogni giorno che ne sei dentro ad un campo di concentramento.

E più ci sei dentro e meno hai voglia di uscirne perché stai perdendo pian piano quello che più ti rendeva unico e al tempo stesso parte di una comunità globale: essere umano.

I Campi sono uguali dovunque e dovunque nonostante gli sforzi di chi lavora nel sociale, di chi cerca di dare speranza, sono posti in cui si perde se stessi, si diventa violenti, o depressi, o tutto e due, non si sogna nulla se non di uscire o scappare di nuovo, ma indietro davvero non si può tornare. O no?

E no, perché c’è il rischio che dopo qualche anno a cercare di sopravvivere, un signore che ha ascoltato la tua storia e l’ha inquadrata negli schemi previsti dalla legge, decida, che no, non ci sono i requisiti per la concessione per il permesso umanitario, che non hai diritto all’asilo, che sei scappato solo per motivi di fame e non di guerra.

E allora ti dicono hai tempo 15 giorni su di te pende un decreto di espulsione, non hai documenti di nuovo, sei di nuovo un san papier e la storia si ripete ma in questo caso ancora peggio di prima, sei sempre di più un criminale, anzi ora lo sei e basta senza attenuanti.

E allora quell’uomo che abbiamo visto sfilare sulla strada potrebbe essere anche un essere umano non gradito due volte che non ha altro futuro che nascondersi in posti che hanno nomi terribili coma la Fabbrica della Penicillina a Roma. Potrebbe essere un uomo che ha abbandonato uno dei Campi della Bulgaria, Harmanli al confine con quella Turchia pagata per tenere chissà dove una massa che preme verso l’Europa, o Voenna Rampa o Ovcha Kupel.

Un siriano, un afghano, un iracheno, un curdo, non ha più importanza da cui provenga quest’uomo, passato al vaglio della nostra giustizia diviene un senza patria, un senza diritti, qualcosa da cancellare prima che ci faccia troppo male vederlo, prima che ci ricordi che sarebbe potuto accadere a noi.

Sulla strada ci siamo tutti, viaggiatori, stranieri e migranti, e sulla strada dovremmo avere gli stessi diritti, il diritto universale alla libertà del viaggiare, il diritto universale al riconoscimento del nostro documento ovunque nel mondo.

Perché se è vero che nasciamo tutti senza nome, un nome e un’identità ci viene data e ovunque dovrebbe essere riconosciuta e rispettata.

Il mio viaggio dall’Ungheria alla Bulgaria e ritorno termina qui, ma riprenderà, per raccogliere immagini e si spera storie, storie che hanno un nome e un passaporto, storie che devono essere “riconosciute”.

Ti auguro buon viaggio e di incontrare storie sulla strada.

Buon 2019

https://www.youtube.com/watch?v=MZ-zrg3_NQ4&t=360s

mercoledì 9 maggio 2018

PGGV n.9 Da Sofia a Lom: la terra degli ultimi Circassi.

In uno dei miei recenti viaggi in Bulgaria, dopo una giornata di visita ad alcuni luoghi memorabili di Sofia, decisi di andare a trovare una mia amica antropologa conosciuta ai tempi di un intenso seminario residenziale ad Osilnica in Slovenia.
In quel periodo si trovava nella casa appartenuta alla nonna materna a Lom sulle rive del Danubio.
Quando le chiesi come arrivare a Lom mi prospettò una scelta tra il bus e il treno. Come al solito scelsi il treno che spesso non è la soluzione più comoda nei Balcani, ma che da sempre mi affascina più del bus.
Mi piace, infatti, trovare un comodo posto con vista allungare le gambe e passare il tempo tra una buona lettura e il paesaggio che passa veloce fuori dal finestrino.
Così di buon mattino mi reco alla modernissima stazione ferroviaria di Sofia 

e prendo il treno per Vidin, per arrivare a Lom dovrò cambiare alla stazione di Brusarci.
Il giorno precedente, il mio viaggio a Lom aveva suscitato un certo interesse da parte delle mie amiche Beni e Betty, erano curiose e divertite allo stesso tempo, sarei riuscito ad indovinare dove scendere?
Quello che non sapevano è ... che sono un esperto nei viaggi in treno.

Il treno impiega circa 3 ore e mezza  per arrivare a Brusarci e attraversando bucolici paesaggi montani. Per gran parte del percorso costeggia il fiume Iskar. 

La regione ha come capoluogo Montana, il treno tra tornanti e tunnel attraversa una zona in cui predominano piccoli pittoreschi villaggi:

Da Brusarci in direzione Lom il paesaggio cambia bruscamente, si attraversa una lunga pianura che degrada verso il Danubio che nel periodo del mio viaggio in piena estate, ha il colore del grano.
Cambiano i colori non solo della natura ma anche delle persone che attendono l'arrivo del treno, il colore più scuro della pelle fa pensare a persone appartenenti all'etnia Roma, ma questo può essere fuorviante.


Anche se, come mi conferma la mia amica, negli ultimi decenni la zona costiera del Danubio ha vissuto un vero e proprio "ricambio socio - culturale",( i residenti storici sono emigrati verso le grandi città della Bulgaria o all'estero, e in effetti sono stati in qualche modo "sostituiti" dai cittadini bulgari di etnia rom, al momento la maggioranza della popolazione soprattutto nei piccoli villaggi della regione), la varietà del "colore" della pelle deriva dai molti contatti che vari popoli nel tempo hanno avuto seguendo le acque del grande fiume, e insediandosi spesso anche in modo drammatico nei piccoli villaggi sulla riva.
Lom è, infatti,  situata sulla riva destra del Danubio confine naturale con la dirimpettaia Romania, è distante appena 50 km dall'antica Vidin con cui condivide parte della storia umana e sociale, ed è il secondo porto Bulgaro sul Danubio dopo Ruse.

Fu fondata dai Traci che la chiamarono Artanes, mentre  i romani ci costruirono una fortezza e chiamarono la città Almus da cui dovrebbe derivare  il nome Lom.
Il nome Lom Palanka fu menzionato per la prima volta nel 1704, anche se è solo dopo il 1830 che la città assunse un ruolo importante nel'economia portuale bulgara col la crescita dei traffici commerciali sul Danubio.
Nel 1869, la città aveva 120 negozi, 148 uffici commerciali, 175 negozi alimentari, 34 caffè, e 6 alberghi, il centro della città era la fortezza di Kale, di cui adesso restano solo alcune rovine.
La città ebbe un ruolo fondamentale nel Rinascimento (Revival) Nazionale Bulgaro, ed ebbe un ruolo di primaria importanza durante la seconda guerra mondiale e nel primo dopo guerra, e questo lo si evince dalla presenza di molti memoriali dedicati alla resistenza del popolo bulgaro di frontiera davanti al nemico avanzante.






Nel 1894 i cechi Malotin e Hosman impiantarono una fabbrica di birra ora conosciuta come Lomsko Pivo.

Ma quello che spesso non viene raccontato e di cui per ovvi motivi non ci sono in città monumenti o memoriali, è che Lom fu una delle ultime patrie elettive degli erranti Circassi nel loro lungo cammino di migrazione forzata. La storia ce la ricorda il grande scittore Magris nel suo libro "Danubio":



"Sotto le bandiere di Osman Pazvantoglu ... c'erano le genti più disparate ... la Sublime porta accolse e trasferì in Bulgaria, specialmente nel 1861-62, tatari e circassi riluttanti al dominio dello Zar in un'odissea tragica per i nuovi arrivati come per i bulgari che dovevano cedere loro il posto ... il circasso è brigante , selvaggio , ladro di cavalli, inetto al lavoro ... In un racconto di Vazov è il circasso Dzambalazat ... a uccidere Hristo Botev ... essi vivono però una tragedia che commuove l'Europa ... la guerra contro i Russi guidati da Sciamil ... I capi circassi, giungendo a Lom, seppellivano i loro morti pensando così di far propria la terra che accoglieva le loro spoglie ... Lungo il fiume , in queste terre dalla geografia ancora incerta ... si incontrano molte figure marginali e avventurieri ... Compiuto il loro servigio ... queste figure spariscono ... lasciando una traccia soltanto nei ruoli di un'amministrazione..." (Claudio Magris, Danubio)".


Il genocidio Circasso.

Il genocidio Circasso (Muhajir) è uno dei genocidi dimenticati d'Europa. Si è celebrato il 150 anniversario nel 2015 proprio mentre a Sochi, città principale dell'antica Circassia, si svolgevano le Olimpiadi Invernali.
I Circassi che comprendevano al loro interno varie tribù, occupavano una zona che possiamo delimitare tra Krasnodar e l'Ossezia del Sud. Il loro nome deriva dalla parola turca cerkes ma in lingua circassa si identificavano come adighè. Erano, e sono ancora adesso, per lo più di religione musulmana sunnita.
Al momento si calcola che ci siano ancora 718.000 circassi residenti nel territorio della Federazione Russa, alcuni anche nei territori storici. Ma il gruppo più numeroso si trova in Turchia, dove sono arrivati proprio attraverso la migrazione che li ha portati a transitare sulle rive del Danubio, a seguito della sconfitta subita per mano dell'esercito russo nel 1859 e soprattutto per via del piano di sterminio fisico e culturale posto in essere da governo russo.
Nel 1862 lo zar diede, infatti, il nulla osta al piano di espulsione di migliaia di montanari circassi al fine di deportarli verso altri paesi, tra cui soprattutto l'Impero Ottomano.
La pulizia etnica terminò ufficialmente nel 1867 quando ormai gran parte dei villaggi erano ormai completamente svuotati.
Per anni i genocidio circasso venne del tutto dimenticato, questo fino al 1991 quando iniziarono a crescere i primi movimenti legati all'attivismo circasso che portarono nel 1994 alla costituzione della Associazione Internazionale Circassa che cercò di ottenere dalla Duma una riconsiderazione del genocidio, cosa che non avvenne .
Nel 2005 il Congresso del Popolo Circasso chiese alla Federazione Russa di riconoscere il genocidio e di chiedere scusa ufficialmente. In un secondo momento il Congresso chiese  anche la costituzione di una Repubblica Autonoma di Circassia, anche in questo caso, però, non vi fu risposta.
Nel 2011 la Georgia nel giorno in cui si festeggiava la propria indipendenza fu il primo paese a riconoscere ufficialmente il genocidio, mentre nel 2014 venne richiesto alla Polonia un simile riconoscimento.
Il massacro dei circassi, soprattutto per bieche motivazioni politiche, è stato ultimamente ricordato dalla Turchia, in risposta a Putin che aveva preso posizione, aprendo ad un riconoscimento del genocidio armeno. Il governo turco ha accusato quello russo di ipocrisia, perchè riconosce il genocidio armeno dimenticando i tanti massacri commessi dal russi contro le popolazioni musulmane.
Tracce della diaspora Circassa si trovano in luoghi apparentemente impensabili come Israele. 
Nei villaggi di Rahaniya e di Kfar Kama, sul lago di Tiberiade, risiede una piccola comunità di circassi che perpetua ancora adesso le proprie tradizioni culturali e religiose. Vi arrivarono nel 1876, quando la Galilea  faceva parte dell'Impero Ottomano.
Pur rispettando completamente le leggi d'Israele, ancora vige l'antico codice habze che prevede tra l'altro il rispetto per gli anziani e delle donne ma soprattutto il rispetto dello straniero e del nemico, che è invitato a dormire in casa in segno di rispetto.
Anche i Circassi sono tra le vittime del conflitto in Siria.
Per un approfondimento vi segnalo questo interessante articolo di Limes: http://www.limesonline.com/rubrica/circassi-il-caucaso-in-siria

lunedì 16 aprile 2018

PGGV n.8: Alla scoperta della Bulgaria: Veliko Tarnovo e le Chiese Rupestri di Ivanovo

Cari amici viaggiatori ritorno dopo quasi un anno con una nuova Guida e questa volta si viaggia nel paese dove nascono i Balcani e che possiamo considerare ... il "Molise dell'Europa Unita".
Avanti siate onesti... in quanti ricordate che la Bulgaria fa parte dell'Unione Europea? Che la capitale Sofia è la terza città più antica d'Europa dopo Atene e Roma? Che è il massimo produttore di lavanda?
Sono solo alcune delle cose che questo meraviglioso paese racchiude e che spesso a torto viene considerato tra i meno affascinanati d'Europa.
Ora però le cose stanno gradualmente cambiando,  visto che Ryanair dallo scorso anno ha aperto una rotta privilegiata da Roma a Sofia che prevede voli quasi ogni giorno della settimana.
Sofia, quindi, è gradualmente diventata una delle nuove mete per i giovani europei, e chi c'è stato ha scoperto una città affascinante, piena di cultura, giovane e soprattutto economica.
Ma oltre Sofia (su cui ritornerò nell'ultima Guida) c'è di più e sulla scorta dell'esperienza accumulata nei sei viaggi in Bulgaria vi propongo una serie di itinerari che spero vi incuriosiscano.

Il mio primo approccio alla Bulgaria è avvenuta per una via inusuale. In vacanza per qualche giorno a Bucharest (Romania) decisi di prendere una macchina a noleggio per attraversare il Danubio all'altezza di Ruse (bellissimo il panorama dal ponte dell'Amicizia) e raggiungere l'antica capitale della Bulgaria Veliko Tarnovo.

Entrati in territorio bulgaro e superata Ruse si attraversa una zona rurale in cui per chilometri non s'incontra anima viva ne villaggi.
Veliko Tarnovo è una bellissima città, ricca di storia che ha il suo punto di forza nella Fortezza (Tsarvets) e nella città vecchia.
Devo confessare che a causa di alcune piccole disavventure e alla presenza di una "non cercata" ma opprimente "guida locale" sono riuscito a vedere solo la Fortezza e una piccola parte della città vecchia. Mi ripropongo al più presto di ritornarci.
Veliko Tarnovo è stata la capitale della Bulgaria dal 1185 al 1393 (Secondo Impero Bulgaro) con in nome di Tarnovgrad e di nuovo dal 1878 al 1879, quando la prima Assemblea Nazionale della Bulgaria spostò la capitale a Sofia.
La Tsarevets (o Caravec), simbolo di Veliko Tarnovo, posta a 260 metri sul livello del mare, perfettamente ricostruita con il materiale d'epoca è simbolo del Secondo Impero Bulgaro.



Ecco la riproduzione della Fortezza:



Di grande rilievo artistico e simbolico è la Chiesa Patriarcale della Santa Ascensione di Cristo, ricostruita nei primi anni ottanta del novecento con affreschi interni in stile modernista.

In onore del passato della città il re Ferdinando I scelse la Chiesa dei Quaranta Martiri, posta su un'ansa del fiume Jantra, come luogo in cui dichiarare l'Indipendenza della Bulgaria (15 ottobre 1908)



Ecco un particolare della chiesa:

 La fuga dalla petulante "guida improvvisata" mi ha comunque concesso l'opportunità  di avere le chiese ruperstri di Ivanovo.

Le chiese di Ivanovo sono un gruppo di chiese e monasteri scavati nella roccia situati nei pressi del piccolo villaggio di Ivanovo. Come si potrà vedere dalle foto che seguiranno, le chiese conservano affreschi medievali perfettamente conservati.

Le grotte sono state abitate fin dal 1320 e fino al XVII secolo. Nel sito vennero scavate chiese, cappelle, monasteri e celle nella roccia. Nel momento di massima gloria, vi si trovavano 40 chiese, con circa 300 edifici annessi, alcuni dei quali si sono conservati fino ad oggi. le foto che seguono sono state scattate nella Chiesa della Santa Madre di Dio, la più grande e facilmente accessibile.
Dal 1979 sono patrimonio dell'Unesco.
Questo primo itinerario si congiunge idealmente ad un secondo che ha in comune soprattutto il Danubio e la sua centralità nel territorio transfontarielo Bulgaro/Rumeno, e  alla Guida sulla città romena di Oltenita (PGGV n. 2 Dalla Stazione di Titan Sud al Danubio).
La prossima guida ci porterà nell'antica città di Lom l'ultima dimora dei Circassi.
Buon viaggio.


sabato 24 febbraio 2018

Il mercante: una piccola grande storia georgiana

Non e' la prima volta che vedo un film georgiano. A Palma di Maiorca mi e' capitato piu' volte grazie alle belle retrospettive del Cinema CineCiutat, piu' difficile vedere film proveniente dall'Est Europa in Italia e soprattutto a Roma, purtroppo.
Un vero peccato perche' alcuni film, o come in questo caso documovies, sono davvero belli e presentano spaccati della vita quotidiana di paesi che ancora adesso sentiamo lontani e irraggiungibili.
Questa volta ci pensa Netflix a regalarci questa piccola gemma.
Il Mercante del regista Tamta Gabrichidze (https://www.netflix.com/watch/80209006?trackId=14170045&tctx=0%2C0%2C81cd3618-dded-4ce4-bf47-e95adfc246b4-54598019)
ci porta alla scoperta del mondo rurale della Georgia, un mondo  che ha tante similitudini con i mondi rurali di un est piu' vicino e a me piu' familiare, quello dei Balcani.
Il protagonista, Gela, compra a buon mercato a Tblisi una serie variegata di oggetti che sa possano essere appetibili per la gente di villaggi sperduti nell'entroterra georgiano, e si mette in viaggio con il suo vecchio furgoncino.
Nel suo viaggio attraversa piccoli agglomerati di case, si ferma nella via principale e aspetta che si fermino i primi avventori. Alcune volte i primi a fermarsi colpiti dalla curiosita' data dalle presenza di un estraneo, sono i bambini , che vengono ammaliati dalle piccole meraviglie che il mercante porta nel villaggio.
Villaggi poveri, in cui la gente vive ancora lontana da quel progresso che noi tanto diamo per scontato e in cui quasi sempre la moneta di scambio e' il surplus di quel che producono ... le patate.
Cosi' in cambio delle sue piccole e necessarie meraviglie il mercante riceve in pagamento patate che rivendera' poi al mercato a Tbilisi.
Il baratto e' un instituto ancora molto diffuso nei paesi dell'Est, un mercato parallelo che fa concorrenza a tante triste diavolerie economiche come Bitcoin, e che consente a persone spesso poverissime di permettersi cose necessarie alla vita quotidiana, impossibili da comprare con i pochi risparmi.
Il governo ungherese del conservatore Orban, ha probabilmente fatto l'unica cosa giusta del suo mandato ,qualche anno fa, quando si oppose al diktat dell'Unione Europea che imponeva la soppressione dell'istituto del baratto visto dalla autorita' europee come un freno allo sviluppo del mercato "ufficiale", salvando quello che per il popolo ungherese e' una tradizione centenaria.
Se avete 23 minuti da regalarvi, guárdate questo intenso piccolo film e immergetevi in una realta' che vi stupira'.
Come sempre buon viaggio.

https://www.netflix.com/watch/80209006?trackId=14170045&tctx=0%2C0%2C81cd3618-dded-4ce4-bf47-e95adfc246b4-54598019

lunedì 5 febbraio 2018

Ederlezi, Đurđevdan je: breve viaggio in una tradizione musicale condivisa.

Ieri sera Goran Bregovic ha eseguito con la sua orchestra una delle più belle canzoni della tradizione romani ... Ederlezi.
La canzone si riferisce alla festività serba di Đurđevdan (Ђурђевдан) il giorno di San Giorgio, uno dei santi maggiormente venerati nella chiesa ortodossa, chiamata in lingua rom appunto Ederlezi, e cade il 6 maggio (23 aprile del calendario Giuliano) celebrando l'inizio della primavera. Il termine Ederlezi deriva probabilmente dalla parola turca Hidirellez, che a sua volta indica una antica festività turca che si svolge circa un mese dopo l'equinozio di primavera. Il termine Hidirellez indica la rinascita della natura e il ritorno della primavera. Si tratta di una festa molto sentita dai Rom nei Balcani e in ogni parte del mondo, a prescindere dalle connotazioni religiose dei vari gruppi. Ciononostante la festa ha come radice storica, come visto, una festività religiosa ortodossa, una Slava (celebrazione di un Santo Patrono).
Nella tradizione romanì, il giorno di San Giorgio si decorano le case con fiori e rami coperti di boccioli, in onore della bella stagione; è inoltre una tradizione comune quella di arrostire un agnello per consumarlo la sera della festa.
In Croazia esiste una versione cattolica della festa, chiamata Jurjevo (Đurđevo) e osservata il 23 aprile del calendario gregoriano. 
In Catalunya e nei Paises Catalanos, San Jordi è il patrono dei librai e il giorno di san Giorgio è in genere viene  festeggiato con l'allestimento di coloratissime  fiere del libro tradizionale, come accade, ad esempio a Maiorca.
Ederlezi è una canzone bellissima e struggente che nelle sue due versioni è stata oggetto di bellissime cover da parte di molti artisti.
Vi propongo di seguito alcune esecuzioni nelle sue due versioni serba e romanì, di questa canzone che sento parte del mio io più profondo.

Iniziamo con la versione di Đurđevdan je dei Bjelo Dugme di cui Goran Bregovic era membro:
https://www.youtube.com/watch?v=5C3SKkNt828

C'è poi una versione del gruppo rock Beirut:
https://www.youtube.com/watch?v=bX63KddDz9s

Una di Ginevra di Marco:
https://www.youtube.com/watch?v=KY-iFyMB1yU

E di Patrizia Laquidara:
https://www.youtube.com/watch?v=hRkB1HoS1f8

Della cantante greca Sia:
https://www.youtube.com/watch?v=yGuCqAfxNqU

Nella versione serba è anche l'inno della Crvena Zvezda:
https://www.youtube.com/watch?v=wkYT4CVwv64

Una versione del gruppo polacco Kroke con Nigel Kennedy:
https://www.youtube.com/watch?v=yQY_upS7KtA

E per finire una bellissima versione in curdo:
https://www.youtube.com/watch?v=zDVHaA-MyeU

venerdì 26 gennaio 2018

Anche questo è stato. La difficile memoria del Campo di Jasenovac in Croazia.

Se vi foste trovati a passare per il piccolo abitato di Jasenovac (Bosco di Frassini nella traduzione italiana), contea di Sisak, Moslavina croata  agli inizi degli anni sessanta del novecento, non avreste trovato altro che un piccolo paese affacciato sul corso del fiume Sava immerso in un paesaggio naturale idilliaco a pochi metri dall'isola di Ustica dove la acque della Sava incontrano le acque di un altro grande fiume balcanico, il fiume Una .

Nulla di più falso, di più fuorviante, visto che vi sareste trovati in uno di quelli che Pollack ha definito paesaggi contaminati, e cioè luoghi in cui incantevoli paesaggi, nascondono cicatrici e ferite nascoste della storia e che solo in alcuni casi riemergono alla memoria grazie alla creazione di memoriali ce ne raccontano la tragica memoria (Martin Pollack, Paesaggi Contaminati, Keller, 2016).
A raccontare e ricordare il Campo di Jasenovac e quello gemello di Donjia Gradina ora nel territorio della Republika Sprska di Bosnia, rimane poco o nulla, ed è solo grazie al piccolo museo e al memoriale che si può individuare quanto meno il punto in cui era stato creato questo terribile luogo di terrore.

Jasenovac , infatti, fu la sede del più grande capo di concentramento creato dallo Stato Indipendente di Croazia filo nazista e diretto da Ante Palevic e dai suoi ustaša, fu articolato in cinque campi.
I primi prigionieri furono rinchiusi nei campi di Krapje (Jasenovac I) e Bročica (Jasenovac II) il 23 agosto 1941.
Questi due campi furono chiusi nel novembre del 1941, mentre gli altri tre campi, allestiti in seguito, Ciglana (Jasenovac III), Kozara (Jasenovac IV), Stara Gradiška (Jasenovac V), continuarono a funzionare fino alla fine della guerra.
Uno dei campi, come anticipato sopra era quello di Donija Gradina, mentre sull'isoletta di Ustica, luogo in cui confluiscono le acque dei fiumi Sava e Una, fa installato un campo destinato ai cittadini di etnia Roma.

Jasenovac fu diretto tra gli altri dall'ufficiale ustaša Dinko Šakić, catturato in Argentina nel 1998. Chiamato a giudizio nel suo Paese insieme all'amante Nada Luburić, negarono ogni accusa, ma furono condannati a 20 anni di carcere (20 aprile). Fu diretto per due mesi anche dal francescano Miroslav Filipović-Majstorović, che vi era entrato come prigioniero per crimini commessi in precedenza. L'ex religioso e cappellano militare, già sospeso dalle sue funzioni dal legato papale il 4 Aprile del 1942, venne espulso dall'ordine dei francescani il 22 Ottobre del 1942. Nel 1946 venne giudicato colpevole da un tribunale civile Jugoslavo di Belgrado e condannato a morte per i suoi crimini.
Le stime del numero di vittime nel campo di Jasenovac differiscono enormemente. Sono molte e difficilmente verificabili le fonti da cui provengono le tristi statistiche:  una di esse indica il numero di morti in una forbice fra 77.000 e 99.000. Di questi, i serbi sono stimati fra 45.000 e 52.000 (su un totale di 320/340.000 serbi uccisi in Croazia dagli ustascia), fra 12.000 e 20.000 ebrei (su un totale di più di 30.000 uccisi), fra 15.000 e 20.000 Rom e fra 5.000 e 12.000 croati e musulmani oppositori politici o religiosi del regime ustaša. Molti di questi erano bambini di età compresa fra i tre mesi e i quattordici anni. Sono stati individuati i nominativi di 83.145 vittime, fra le quali diciannove italiani, diciotto uomini e una donna, deceduti tra il 1941 e il 1945, i loro nomi possono essere letti nel piccolo museo dedicato alla memoria del Campo.
Nella sponda serba del fiume su cui è costruito il campo, ovvero nella Republika Srpska (parte della confederazione della Bosnia ed Erzegovina), si è continuato a proporre la cifra di circa 600.000 vittime (elaborata dalla storiografia jugoslava e portata avanti fino agli anni Ottanta anche nelle altre Repubbliche).
Fu definito l’Auschwitz dei Balcani, o l’Auschwitz Jugoslava.
Di questo terribile campo però fino alla metà degli anni 60 non restava praticamente nulla perché, quando nell’aprile del 1945 le unità dei partigiani iniziarono ad avvicinarsi al campo, i supervisori del campo nel tentativo di cancellare le tracce, bruciarono tutto,.
Il 22 aprile, ci fu una rivolta di 600 prigionieri, 586 furono uccisi e 84 scapparono. Prima di abbandonare il campo gli ustaša uccisero i restanti prigionieri e diedero fuoco agli edifici, alle stanze dei militari e alle stanze delle torture. Quando in maggio i Partigiani entrarono nel campo trovarono solo fumo rovine a scheletri poveri resti delle centinaia di vittime.
Solo nel 1966  fu creato un Memoriale, una scultura disegnata dallo scultore Bogdan Bogdanovic a memoria delle atrocità commesse dal governo filonazista. Si tratta di un grande fiore di cemento, un Loto, che domina la vallata a memoria di quel che è stato. Nonostante sia una costruzione all'apparenza semplice racchiude significati simbolici profondi. Data la natura del testo non mi soffermerò molto sulla simbologia del fiore, chi fosse interessato può leggere di più sul "Fiore di Pietra" e sul suo autore a questo link: http://www.spomenikdatabase.org/jasenovec.

La storia travagliata della memoria del campo di Jasenovac, doveva arricchirsi, negli anni successivi alla costruzione del memoriale, di nuovi tentativi di insabbiamento nel corso degli anni 90 del novecento a causa della dissoluzione della Jugoslavia e della successiva "guerra civile".
Poco dopo l’inizio del conflitto, siccome nel nuovo nascente stato Croato, erano sempre più evidenti i tentativi di revisionismo storico, Simo Brdar assistente del direttore del Memoriale trasferì, nel 1991, gran parte della documentazione nella parte Bosniaca del memoriale a Donja Gradina, nel tentativo di salvarne le memorie. Nel settembre dello stesso anno le forze croate vandalizzarono i luoghi del memoriale.
Le memorie rimasero nella nascente Republika Sprska fino al 1999 , quando grazie ad un accordo nel 2000 furono trasferite allo United States Holocaust Memorial Museum e un anno dopo riportate finalmente al memoriale di Jasenovac
Nel 2004 iniziò ad essere portato avanti un progetto di recupero della memoria dei luoghi e delle memorie individuali di chi era scampato al campo grazie all'opera della nuova direttrice.
Il nuovo memoriale riaprì nel 2006 con una nuova mostra permanente, video e documentazione originale, e una riproduzione del treno che portava i prigionieri direttamente nel campo. Non mancarono, anche in questo caso, polemiche anche da parte di esponenti del mondo ebraico. Efraim Zuroff, uno dei cosiddetti "Nazi-hunter" (cacciatori di nazisti),  lo definì “postmodernism trash” e criticò la rimozione di tutti gli strumenti di uccisione e tortura utilizzati dagli Ustascia.

Nonostante tutto Jasenovac rappresenta uno dei pochi memoriali nei Balcani che racconta le atrocità commesse durante la seconda guerra mondiale.

E arrivarci non è facile.

(Dal Diario di Viaggio)
Sono fortunato, è una fredda ma soleggiata  mattina di sole di un mite febbraio.  Sono partito da Zagabria in treno per raggiungere dopo un paio d’ore la stazione di Jasenovac. Da tempo avevo intenzione di visitare il Memoriale, e il convegno sulla memorialistica legata alla seconda guerra mondiale nei Balcani a cui sto partecipando a Zagabria, me ne da lo stimolo e l'occasione.
E ci vogliono stimoli davvero forti per raggiungere Jasenovac, il viaggio infatti, non è agevole.
Parto in treno da Zagabria, il paesaggio che scorre davanti a miei occhi in alcuni tratti è davvero spettrale: grandi fabbriche abbandonate si alternano a case ancora distrutte da quella che avevamo definito “guerra civile”.
La cosa però più sconcertante è l’arrivo alla stazione di Jasenovac , stazione che in pratica non esiste.
Solo grazie al fatto che alcune persone stavano scendendo ho capito che eravamo arrivati. Non c’è marciapiedi, si scende  direttamente sui binari. Quello che doveva essere il caseggiato nuovo in ferro è completamente abbandonato, mentre il caseggiato in mattoni, la vecchia stazione porta i segni della guerra e dell’abbandono.


Per raggiungere il Memoriale non si attraversa il paese, si segue per un breve tratto la strada statale, in un silenzio quasi assoluto interrotto solo dall'abbaiare dei cani e dallo scampanare della chiesa del paese.
Dopo qualche chilometro finalmente arrivo ad un incrocio dove trovo le prime indicazioni che portano al monumento.

Il vasto prato che si stende davanti a me è ciò che resta della memoria del campo.  C’è un piccolo museo, purtroppo chiuso, e un percorso che porta verso il Fiore di Loto che rappresenta la memoria di quel che di terribile è stato.

Sul cammino si trova una riproduzione del treno che portava i prigionieri nel campo e poco altro.

La difficile memoria e la sua damnatio.
Pochi metri prima della conclusione del cammino verso il Fiore, c'è un piccolo laghetto e in bronzo una ricostruzione di quella che doveva essere la struttura del Campo.

Lasciato il campo, in un silenzio assoluto, si ritorna verso Jasenovac dove è possibile incontrare sul cammino un altro memoriale in questo caso più genericamente dedicato ai martiri del fascismo

 e si svolta a sinistra verso la frontiera con la Bosnia Erzegovina, Repubblica Spsrska.
Si attraversa dapprima l’isoletta di Ustica il punto che delimita il confluire delle acque dei fiumi Una e Sava, e dove era istallato un campo di concentramento destinato ai Rom (di cui non resta traccia né si riscontrano memoriali),

 e poi superato il confine, se si percorrono poche centinaia di metri si arriva al secondo memoriale che ricorda quanto accaduto in queste terre.

Il Memoriale che ricorda il campo di Donja Gradina, è rappresentato da un tronco di un grosso albero che sembra osservare  lo scorrere incessante del fiume.



Luoghi di memoria, di una memoria ancora adesso divisa, dove si sovrappongono differenti memoriali, di drammi che la storia ci ha appena aiutato a comprendere.

Ritorno sui mie passi e attraverso la frontiera. I soldati sorridendo curiosi, non penso passino molti stranieri a piedi da quel confine, mi chiedono da dove vengo e poi mi appongono il visto sul passaporto, avranno qualcosa da raccontare stasera.
A me non resta che camminare velocemente verso la stazione e cercare di prendere un treno che mi porti verso la vicina Novska dove dovrò cambiare convoglio.

Il treno si avvicina io attraverso uno dei binari e sollevo la mano come se stessi prenotando la fermata di un tram o di un bus, salgo a fatica , il dislivello (mind the gap direbbero gli inglesi) tra terreno senza banchina e treno è molto, e sono costretto quasi ad arrampicarmi.
Nel breve viaggio verso Novska, guardo osservo ancora una volta scorrere dal finestrino la wasteland croata, luoghi che l'ancora recente guerra civile ha svuotato di persone e memorie, lasciano a memoria di una nuova tragedia case che nessuno più abiterà.

E ricordo anche in questo caso come tutto questo è stato

Beldocs festival tra memoria e attualità? E se quello che vediamo non fosse davvero "fiction"?

Si è aperto mercoledì con la proiezione di "Another Spring", film serbo in prima visione su come la Jugoslavia nei primi anni se...