mercoledì 9 dicembre 2015

La vita sociale delle parole


Già prima che succedesse quel che è successo a Parigi, ultimo ma non ultimo atto di terrorismo e bieca violenza da parte di persone che non possono essere considerate parte dell’umanità come noi la concepiamo, ho iniziato una profonda riflessione sull’importanza delle parole, sul come vengono pronunciate in che contesto, e da parte di chi.

Nell’ultimo anno ho iniziato, infatti, una profonda riflessione sull’impatto che pensieri, idee e parole pronunciate da persone che si ergono volenti e/o nolenti a opinion leader , hanno su quella parte della popolazione che si riflette nelle posizioni dell’oratore, e che di questi condivide un’immagine quasi profetica o messianica.

Ho atteso che fosse tutto più chiaro nel mio pensiero e ho atteso altresì che finalmente arrivasse quell’illuminazione sul titolo da dare a questa mia riflessione. E un giorno, in viaggio, perché quasi tutto si rivela nel viaggio, ho iniziato a ripetere a me stesso questa frase: “ la vita sociale delle parole”.

Riecheggia un po’ il titolo di un meraviglioso film di qualche anno fa, “La vita segreta delle parole”. Il film tratto da una storia vera, portava lo spettatore a riflettere sul peso delle parole e dei silenzi, e  proprio dal peso delle parole voglio iniziare questa mia riflessione.

Qualche tempo fa ho “osato” guardare da un punto di vista leggermente differente dal pensiero mainstream, la nota vicenda legata al processo a Erri De Luca. La vicenda è ben conosciuta,  per alcune frasi dette in determinati contesti e che in qualche modo sembravano un’istigazione da parte dello scrittore all’esecuzione di un atto comunque violento nella direzione e nell’obiettivo, l’autore è stato portato dinanzi ad un tribunale. Pur ritenendo un’aberrazione portare le idee a  giudizio, voglio riflettere sul peso di quelle parole, questo perché spesso si dimentica che non esiste solo una violenza contro le persone ma anche verso le cose e verso i simboli. Non entro più nel merito se sia giusto o meno boicottare la TAV e se la TAV stessa deve esistere, dovremmo riflettere preventivamente sul concetto stesso di boicottaggio prima di chiederci se davvero il mondo sarà migliore con o senza TAV.

Quel che mi urge è chiarire la mia posizione che altro non è che un passaggio ulteriore nella mia riflessione sulla vita sociale delle parole.

Ecco cosa sono le parole, in esse c’è la vita” diceva Salvatore Mignano mio amato professore alle superiori e grande scrittore. Ed è così nelle parole c’è la vita ed esse vivono nella vita di ogni giorno, nella percezione e nell’interpretazione che ne viene data.

Hanno appunto una vita sociale.

Quello che volevo esprimere quando ho detto che non mi sentivo del tutto solidale con Erri De Luca, non era riferito al non sentirmi solidale nel momento del giudizio, ma alla mancata valutazione da parte dello scrittore dell’impatto sociale delle sue parole in un contesto com’è quello della sinistra cosiddetta antagonista che vive di varie e differenti anime non tutte definibili “pacifiste” e che ,penso, un profondo conoscitore della vita e dalla società come De Luca dovrebbe conoscere bene.

Quello che contestavo era proprio questo: la mancanza di responsabilità, di percezione della vita sociale di quelle parole.

Ora mi immagino la prima reazione: ma allora cosa vorresti che si imbavagliassero le idee, che si tornasse alla censura ?

No di certo, ognuno è libero di dire ciò che pensa ma deve prefigurarsi  che le sue parole possano generare reazioni anche di una certa pericolosità sociale.

Il discorso che facevo riguardo Erri De Luca vale per tutti, ma quello che mi indisponeva era che da una persona con un’esperienza anche dolorosa di vita come lui, mi sarei aspettato più riflessione sul senso delle parole e sul contesto.

Mentre poco ci aspettiamo da uno come Salvini, delle cui istigazioni alla violenza e all’apologia di qualunque cosa spesso ridiamo senza problemi ( ma su cui forse dovremmo riflettere di più) dobbiamo aspettarci da chi in un modo o nell’altro si erge a “profeta” una maggiore responsabilità, una maggiore sensibilità.

Se le stesse frasi dette da Erri De Luca le avesse pronunciate un esponente di Casa Pound saremmo tutti d’accordo che si trattava di un’istigazione a delinquere etc … ma i profeti e le loro parole non si toccano e non si criticano per via proprio del peso delle parole, cariche di un significato ulteriore.

Purtroppo ultimamente in Italia di profeti ne abbiamo fin troppi e il rischio di proselitismo acritico esiste. E mentre Erri De Luca è uno scrittore che comunque ha scritto pagine meravigliose, ci sono alcuni profeti del quartierino che nel loro italiano rabberciato e con il loro cattolicesimo da operetta stanno tirando al loro mulino l’italietto medio che ha bisogno, come il cane, del padrone che lo tira nei momenti di difficoltà.

Andiamo avanti.

Quando ho visto e letto le vignette di Charlie Hebdo un brivido mi è passato nel corpo. Blasfeme? Non so se definirle così, di sicuro irrispettose e pesanti. Perché si può e si deve portare all’attenzione quello che è a nostro modo di vedere sbagliato in sistemi e culture che noi consideriamo “altre” ma sempre tenendo conto del contesto in cui queste vignette, queste parole sono lette, non possiamo pensare alla satira come ad un prodotto costruito per noi occidentali e pensato per la nostra sola fruibilità. Essendo il nostro mondo interconnesso, ogni parola o gesto ha una sua importanza e una sua rilevanza.

E allora nel momento in cui io scrivo o disegno qualcosa che parla di Maometto o di Allah devo sapere che nel Corano è scritto che Dio non può essere ne pronunciato ne disegnato e che quello che per noi può essere una leggera vignetta di satira diventa un macigno tirato sulla fronte di milioni di persone che hanno una sensibilità diversa rispetto a ciò che è sacro.

Chissà che una risata in meno, forse, non avesse portato ad una reazione meno violenta.

Allora direte: “vabbè allora ogni volta che apro bocca o scrivo qualcosa mi devo mettere a pensare se questo offende qualcuno o qualcun altro o forse pensi che in qualche modo se la siano cercata offendendo l’islam? Giustifichi gli attacchi terroristici come strumento di difesa?”.

La risposta è no, decisamente no.

La violenza è violenza senza nessuna distinzione e senza nessun ma o però. Rimane il peso delle parole, un peso enorme e la mancanza di rispetto verso quella parte di mondo islamico che non prende in mano un fucile o una bomba , ma che sicuramente può essere “offesa” dalla rappresentazione grafica del Profeta.

Un’altra eccezione che potreste fare è questa: “ Ma perché noi dovremmo avere tutto questo rispetto nei loro confronti , permettergli la costruzione di moschee centri religiosi etc, mentre loro non ci consentono di esprimere la nostra religione nei loro paesi, anzi la perseguitano sanguinosamente? Non dovremmo pretendere lo stesso rispetto?”.

Questo discorso non ha senso e porta all’inasprimento dell’idiozia, questo perché io non posso pretendere dall’altro che faccia quello che io vorrei, questo sia nella vita personale che in un contesto politico sociale religioso. L’unica cosa che posso fare è rispettare l’altro senza aspettarmi che l’altro rispetti me. So che sembra qualcosa di improponibile, ma penso che se io rispetto l’altro questi lo noterà e finirà per rispettare me.

E’ difficile ma non impossibile. E il maggior rispetto risiede nella gestione della nostra comunicazione, della proposizione di idee.

Fin quando si ascolteranno falsi profeti come la Fallaci e ipocriti convertiti coma Magdi Allam, il cui unico messaggio è un violento disprezzo nei confronti del diverso, non ci si muove di un passo, anzi si fanno solo passi indietro.

Altra obiezione: “Ma allora il male siamo noi e non l’islam? E quello che viene fatto ai cristiani in Africa, in Nigeria per esempio?”.

In riferimento a questo mi piacerebbe introdurre un altro punto di riflessione.

C’è una parte della nostra società che anche solo con mezze parole esprime spesso un concetto che umanamente è imbarazzante.

Una parte dei nostri concittadini mi sembra dia un peso differente ai massacri che avvengono nel resto del mondo e in particolare nei paesi in cui ad essere perseguitati non sono islamici, ma bensì cattolici e cristiani.

Questo perché sulla fede cattolica in particolare abbiamo costruito strutture e sovrastrutture che ci portano a vederla come qualcosa di morto, marcio. Un luogo in cui vive il male, lo sfruttamento anche quello sessuale, come se questo accadesse solo nella chiesa cattolica e non anche in altre forme di religiosità.

La struttura Chiesa-Vaticano incarna quel che per noi è la Chiesa. Ma la Chiesa Cattolica è anche altro e spesso lo dimentichiamo, perché finiamo per considerare il cristiano che muore in Africa come un martire di serie B, perché convertito da una Chiesa che noi mal sopportiamo. L’Islam è puro anche nelle sue perverse manifestazioni, il Cattolicesimo sporco e corrotto vale poco come i suoi martiri, persone di serie B.

Un’esagerazione? Uno sbaglio di prospettiva? E allora sbagliamo anche a pensare che ci siano morti di serie A e di Serie B anche negli attacchi terroristi che stanno insanguinando il mondo per mano dell’Isis. Non c’è la percezione netta forse che fino a quando colpivano il “nemico interno” o quello appena appena esterno, vedi Siria, a noi poco importava, ma Parigi è Parigi?

La vita sociale delle parole dicevo.

Se si studiano i social networks, si vede come ci sia una gara alla strumentalizzazione da una parte e dall’altra, si estrapolano frasi o pezzi di frasi da contesti letterari più complessi, per costruirci su un pregiudizio su cui si basa un’idea e in alcuni casi la linea di un partito politico o movimento.

Le parole travisate e reinterpretate assumono un nuovo peso, un nuovo e irrimediabile fraintendimento.

Forse ho scritto troppo e forse anch’io non ho tenuto conto del peso delle parole, ma quello che dovremmo pensare quando scriviamo qualcosa, fosse anche uno status o un commento, è questo: sto per dire questa cosa, magari per me è importante perché esprime la mia rabbia , la mia insoddisfazione nei confronti di qualcuno o qualcosa, ma che impatto avrà? Posso rinunciare all’offesa per contribuire ad una dialettica di pace? Posso frenare la mia rabbia giusta o sbagliata che sia per cercare un dialogo?

Mi sembra che da questo possa partire una rivoluzione, che è quella di sempre, la rivoluzione dell’ascolto e dell’empatia.

L’altro non corrisponde? Io non posso essere nella sua testa e nel suo mondo.

Se la soluzione, l’unica possibile è scaraventargli addosso bombe e ricambiarlo con lo stesso pane, io non ci sto.

Siamo sicuri che se davvero sentissero il nostro appoggio morale e umano senza preconcetti o sovrastrutture, i tanto vituperati islamici moderati non si sentirebbero più forti nella reazione? Se invece di rivolgere loro parole di scherno verso il loro profeta , verso ciò che loro considerano sacro, cercassimo di costruire con loro un nuovo umanesimo?

Altrimenti l’alternativa è quella che conosciamo , e le bombe purtroppo pesano molto più delle parole e lasciano danni indelebili, dovunque scoppino e chiunque uccidano.

domenica 20 settembre 2015

L'illusione della terra ferma. Una storia di sale e carbone di Otto Gabos

E' stata una lunga attesa, ma ne è valsa la pena.
Dopo aver visto il progetto del cartoonist Otto Gabos crescere ed evolversi giorno dopo giorno sulla pagina appositamente creata su Facebook, finalmente ho tra le mani il prodotto finito, il frutto di un lungo lavoro di ricerca e di ricuciture di memorie personali e pubbliche. Una ricerca nella memoria che emerge dalle lettura del materiale a margine della graphic novel, in cui Gabos ricostruisce attraverso le proprie e le altrui memorie questa storia di sale e carbone che si sviluppa tra Iglesias e Carbonia.
Quello che conosciamo come Sulcis Iglesiente, una delle più recenti province italiane, viene raccontato in quei giorni in cui diviene quel che ora è solo archeologia industriale, attraverso lo sguardo del Commissario Marmo, fascista riluttante, per punizione sottratto alla sua terra senese e scaraventato, lui che lo odia o mal sopporta, in una terra circondata dal mare.
Marmo per cercare di esorcizzare l'isola e l'insularità, guarda la vicina isola di Carloforte immaginando così di essere sulla terraferma, ecco il perché di questo bellissimo titolo, l'illusione della terraferma.
"Oggi il continente è isolato" diceva un vecchio professore di antropologia, quando la Sardegna era per via del mare forte, isolata dal resto d'Italia.
Un netto rovesciamento di prospettiva frutto proprio dell'esaltazione della insularità che permea il rapporto con la terra e con il mondo fuori.
Un'insularità che ti porti dentro anche quando sei costretto a vivere sulla terraferma.
Non si tratta poi di un fattore genetico o un'impronta di nascita, che tu sia nato sull'isola o ci abbia solo vissuto per qualche tempo, l'insularità te la porti dentro come un segno e  la puoi vivere con struggente malinconia ( è questa in parte la sodade capoverdiana) o reprimerla, odiarla.
Marmo non sopporta il mare, dicevamo, non sopporta l'isola, e forse buona parte degli isolani, soprattutto tutta quella serie di figure marginali e prepotenti che pensano di poter esercitare un potere assoluto in nome di un'ideologia, di un'idea divenuta perversa.
E' un fascista che gradualmente, nonostante abbia servito il regime e il paese anche in Africa, si rende sempre più conto delle sue brutture e delle sue esagerazioni, e questa terra aspra accentua la sua lontananza dal centro dell'ideologia e acuisce il suo dissenso.
Figure come il gerarca Porziani non erano figure isolate, erano anzi la faccia più triste del regime.
Intorno a Marmo, il gerarca, il proprietario delle miniere di Carbonia e un uomo ritrovato con la testa mozzata, ruota la storia. Chi ha ucciso quell'uomo e perché? Omicidio politico? Oppure le ragioni sono da trovare nella sfera personale dei soggetti coinvolti?
La realtà alcune volte è molto più semplice di quel che si pensi, e il vero mistero lo scoprirete leggendo le pagine della storia di cui non dico di più per non rovinarvi la sorpesa.
Voglio soffermarmi, seguendo la mia sensibilità antropologica, su quelle "cartoline" che Gabos inserisce nella storia a mo' di scenario, Carbonia, Iglesias, la miniera simbolo di progresso e di oppressione.
La discesa di Marmo agli inferi della miniera, fa parte anche del percorso nella memoria che Gabos percorre nella realtà. Fa parte di quel microcosmo vitale in cui l'autore è cresciuto e che ha voluto riportare in vita.
Si è parlato di Marmo e di quelli che possono essere considerati i personaggi principali, ma grande interesse riscuotono anche i cosiddetti "personaggi di contorno", spesso presi dalla vita reale dell'autore, omaggio a persone importanti, a cui in alcuni casi Gabos da il nome di giocatori del Cagliari realmente esistiti.
Mallus con la sua saggezza da marinaio intraprende la titanica operazione di far innamorare del mare il freddo detective Marmo, mentre le intriganti figure femminili, all'inizio appena accennate divengono pagina dopo pagina sempre più prepotentemente protagoniste.
E poi c'è il carbone, sembra quasi di sentirlo nell'aria, carbone che si mescola al sale, perché c'è anche tanto mare, mare in tempesta, mare ruggente, mare che divide, ma anche un mare che sa unire e riempire di poesia.
Il mare con i suoi colori tenui (un limpido colore di cielo) si rivela nel finale, quando Marmo la sua padrona di casa (o molto di più?) e il figlio di lei Pietro ipovedente, unica persona a cui Marmo sembra legarsi veramente, sono in viaggio in treno verso Cagliari.
Marmo va verso la sua vita, il bambino forse verso la guarigione.
Marmo chiede a Pietro: "Sei contento che andiamo a Cagliari?"
E il bambino chiede: " Cosa c'è a Cagliari?"
La risposta di Marmo è nella meravigliosa ultima tavola di questo racconto per immagini, un cielo pieno di colore e speranza, striato da tenui nubi e qualche gabbiano sullo sfondo.
Cosa c'è a Cagliari?
Marmo risponde "C'è il mare ..." e sembra quasi di viverlo questo fermo immagine, questo omaggio di un uomo che non ama il mare a quella distesa di acqua salata, e ti si ferma il respiro e le lacrime furtive bagnano le ciglia.
Perchè questo fa il mare, commuove sempre nel suo continuo e incessante movimento.
Grazie Otto Gabos per questo capolavoro di sale e carbone con mare.


http://www.rizzolilizard.eu/libri/lillusione-della-terraferma/?refresh_ce-cp

lunedì 7 settembre 2015

Grazie di cuore Mr. Orban.

Dovremmo ringraziare e di cuore Mr. Orban, l'Ungheria e il suo muro. Perchè se "fascistissimo me" Orban non avesse proclamato in una giornata caldissima di luglio che avrebbe in un mese (manco Dio) eretto una barriera di filo spinato a protezione della "magiarità", la maggior parte dell'Europa sarebbe rimasta all'oscuro, avrebbe continuato beatamente ad ignorare, quel "transito terreste" per dirla alla Battiato, che da anni attraversa I Balcani e si dirige verso il cuore dell'Unione Europea.
Pensate se per uno dei paradossi della storia gli dessero il nobel per la pace per aver rivelato all'Europa la parte scura del suo cuore, della propria ignoranza e della propria indifferenza.
Me lo immagino dopo che ha chiuso (si fa per dire) a chiave la frontiera con la Serbia e poi si trovato ancor più di prima il paese pieno di migranti venuti da parti lontane di questo fantastico mondo.
Meno male che la Merkel ad un certo punto si è accorta che è in atto un esodo, forse è stato il senso di colpa per come aveva trattato la bambina palestinese?
Fatto sta che Orban anche involontariamente ha messo di fronte all'ipocrita europa il dramma dei migranti. Questo è, ha detto, e ora?
E ora facciamo così uno a te tre a me, tre ancora a te e uno a parrocchia.
Il mondo sembra essersi svegliato.
Sembra essersi svegliato dal torpore e dall'indifferenza dell'uomo comune cantata con forza da Bob Geldof, "I don't mean at all", non posso pensare a tutto dice allargando le mani il "buon padre di famiglia".
L'Europa si è svegliata, ma la gente, perchè è la gente che fa la storia, era già sveglia da prima e della Serbia che accoglie  i migranti come fratelli in nome dell'antica ospitalità balcanica nessuno o quasi  parla ma esiste, ed è fuori dell'Europa che conta. Come contano e come quelle persone che hanno deciso di andare a prendere i migranti in auto dall'Austria.
Tutto questo non sarebbe esistito senza il mio meraviglioso colpo di scena Mr. Orban, eroe involontario.
E allora grazie Mr. Orban per averci risvegliati.
Durerà?



mercoledì 26 agosto 2015

Da Asotthalohm a Roszke: storie e immagini inseguendo il confine.


Ho un vizio, quello di viaggiare, e soprattutto il vizio di viaggiare fuori  dalle normali rotte (citando un bel libro di Wheeler , Fuori rotta) che i normali viaggiatori scelgono.
Sono un viaggiatore degli interstizi , a cui piace superare confini, veri o presunti che siano.
E questo confine dovevo assolutamente vederlo, sentirlo, viverlo.
Asotthalom, quasi impronunciabile paesino al confine tra Ungheria e Serbia, fino a pochi mesi fa era solo un anonimo paese di campagna facente parte della provincia di Csongrad. E così si mostra al viaggiatore al suo arrivo, poche case una chiesa, il municipio, la fermata dell’autobus.
 Da qualche mese, però, è diventato uno di quei punti del mondo dove le società collidono, dove i confini, seppure invisibili, si palesano per quello che sono, muri invalicabili e chiari, segnati e visibili.
Asotthalom in realtà, già un paio di anni fa era salito alla ribalta europea per essere diventato uno dei pochi comuni in Europa ad essere governato da un sindaco esponente di un partito di estrema destra di matrice chiaramente fascista e orientamento razzista come è Jobbik. Un sindaco che, in un paesino di 4700 abitanti , ha ottenuto un consenso vicino al 72% anche grazie all’appoggio di altri partiti anche di sinistra, escluso il partito di governo Fidesz.
Ed era quindi in qualche modo logico che da Asotthalom iniziasse la costruzione del Muro.
E pensare che l’Ungheria nel 1989 fu la prima tra i paesi del blocco sovietico ad “abbattere” il muro che la separava dall’Occidente, in questo caso l’Austria. Il reticolato che da anni separava i due paesi venne tagliato in più punti consentendo così per la prima volta dopo anni il è passaggio all’Occidente non solo di cittadini ungheresi ma anche e soprattutto di cittadini facenti parte della Germania Est.
Ventisei anni dopo un nuovo reticolato viene costruito in tempo record per proteggere una parte della  frontiera patria.
IL 22 agosto raggiungere il muro è ormai quasi impossibile per via del nutrito dispositivo dispiegato dal governo. Polizia di frontiera ed esercito pattugliano capillarmente il territorio, ma voglio cercare comunque di seguire il confine che separa l’Ungheria dalla Serbia.
Arrivo ad Asotthalom intorno alle 11.00 di mattina, un sabato qualunque di fine estate, il cielo grigio che minaccia pioggia, 180 km da Budapest, dopo aver attraversato la Pustza.
Parcheggio la macchina e mi guardo intorno, ad un incrocio c’è un poliziotto, decido di farmi avanti e chiedergli qualche informazione. La prendo alla larga, chiedo all’uomo quale strada devo prendere per raggiungere Subotica.
Il poliziotto non parla inglese, mi fa segno di andare diritto , 10 km, mi dice separano Asotthalom da Subotica,  altra città simbolo di questa immensa migrazione fino a qualche tempo fa meno “mediatica” di quella che attraversa le vie marittime.
Ma da tempo c’era chi questa migrazione  l’aveva studiata e portata alla luce per lo più nell’indifferenza dei molti. E’ leggendo i lavori dell’antropologa Desirè Pangerc, soprattutto la tua tesi dottorale, che mi sono avvicinato allo studio delle vie di terra della migrazione.
Mentre osservo l’apparente calma del piccolo paesino mi guardo intorno in cerca di quel punto di divergenza rispetto all’abituale, al normale di questo piccolo villaggio, zona di transito verso l’Europa.
La mia attenzione viene catturata dall’arrivo di un pullman, con destinazione Szeged, il capoluogo della regione di Csongrad, snodo fondamentale per arrivare a Budapest.
Cinque ragazzi che possono aver sui vent’anni attendono l’autobus. Hanno quello che potremmo definire l’habitus del migrante, difficile non riconoscere dal modo di vestirsi, dalla pelle più scura, dal vagabondare stanco per le vie, l’habitus del migrante, lo stigma che si porta addosso e dentro.
All’occhio dell’occidentale, poi, sembrano tutti uguali, scuri di pelle (più o meno), sporchi, mal vestiti, ma ognuno di loro ha una storia, ognuno di loro “è” una storia.

Arriva un bus, apre le portiere e i quattro ragazzi entrano dalla porta centrale insieme ad altre persone. 
Pochi secondi, il tempo di sedersi, e il conducente si vede costretto a farli scendere, non c’è cattiveria nel suo volto, non c’è fastidio, forse indifferenza, e non c’è animosità da parte dei quattro migranti, tutti finiscono per accettare il proprio ruolo.
I quattro si siedono di nuovo su una panchina in attesa di un altro bus per Szeged, di un altro autista che magari sia pronto a chiudere un occhio o forse due.
Riesco a riprendere parte di questa scena con il cellulare facendo finta di parlare, l’autista del bus mi guarda in modo strano e mi segue nei miei movimenti, immagino che in questi giorni ci sia un bel via vai di giornalisti in questi luoghi.
Passano pochi secondi e arrivano due ragazzini in bicicletta. Uno dei ragazzi si avvicina al ragazzino e gli chiede qualche informazione, il ragazzino dice qualcosa e sembra parlare con persone che conosce da sempre e di cui non ha alcuna paura e verso i quali non prova alcun risentimento, solo curiosità.
Dopo un po’ decido di andare via al fine di cercare una strada che mi porti il più vicino possibile al muro di filo spinato che sta per separare fisicamente questa parte dell’Ungheria dalla Serbia a maggioranza ungherese che si trova oltre il confine,  la Vojvodina.
Mentre sto per aprire la macchina sento il suono di alcune sirene, e un rumore di macchine come in corteo, , ma non sono camionette dell’esercito in marcia, si tratta solo di una manifestazione di macchine d’epoca scortate da alcuni veicoli e moto della polizia locale. Ma non passerà molto tempo prima di vedere in azione una camionetta della guardia di frontiera.
Lascio Asotthalom in direzione Subotica verso il confine, confine che so già che non potrò varcare in quanto la macchina a noleggio non ha la documentazione adatta per l’espatrio, ma cerco fisicamente il confine e lo sfioro più volte.
Proseguendo lungo la strada che da Asotthalom arriva a Roszke, intravedo alcuni migranti, si nascondo tra la boscaglia al passaggio delle macchine per poi fare capolino poco dopo e riprendere il cammino.
Alcuni però, forse perché stanchi o perché più temerari non si preoccupano  di non farsi vedere , in definitiva, che cos’altro gli potrà succedere che già non gli è accaduto nel corso della migrazione?
Proseguendo nel cammino ai bordi della strada si trovano i resti di chi ha passato la notte all’addiaccio, scarpe, scatole, buste, coperte, sacchi e vettovaglie fornite dalle ONG che lavorano sul territorio di Subotica.
Dopo una curva vedo la prima cosa che davvero mi impatta.
In un prato decine di persone giacciono stremate  completamente all’addiaccio, qualcuno ha acceso un fuoco improvvisato, la notte prima ha piovuto, qualcun altro ha improvvisato una tenda, sul ciglio della strada una volante della polizia a custodire e sorvegliare i disperati.
Cerco di riprendere con il cellulare la scena dalla macchina, proseguo verso il posto di frontiera di Backa che si trova a poche centinaia di metri, arrivato a pochi metri dal confine faccio inversione e mi preparo a documentare di nuovo quel che ho visto, e la scena ancora una volta mi colpisce.
Per chilometri seguo la strada che costeggia il confine, non c’è un’anima viva, svolto in alcune strade di campagna che si perdono nei campi, c’è gente che lavora la terra, e il silenzio interrotto solo dai suoni della natura.
Arrivato all’altezza della piccola città termale di Morahalom, vedo per la prima volta in azione la polizia di frontiera.
Tra ragazzi passeggiano sopra un marciapiedi della periferia, la camionetta si avvicina, loro senza alcuna animosità e con un sorriso stentato sulle labbra seguono i poliziotti, che non esercitano in questo caso alcuna forma di coazione. La porta si chiude e la camionetta dopo aver atteso che io la superi , si rimette in marcia presumibilmente verso il CIE di Roszke, luogo dove anch’io sono diretto.
Asotthalom e Roszke sono distanti appena 12 chilometri.  Pochi chilometri prima dell’ingresso a  Roszke c’è una rotonda, se si svolta verso destra, verso il posto di frontiera, fatte poche centinaia di metri sulla destra si può scorgere chiaramente il CIE di Roszke, uno dei primi punti di accoglienza (?) prima dello smistamento dei migranti tra Budapest e Pecs.
Passo due volte davanti al CIE per documentare in qualche modo l’esistenza di questo non –luogo, che forse, anche nella sua straniante drammaticità, potrebbe rappresentare per alcuni la porta verso la libertà, il riconoscimento dello status di rifugiati.
Sono quasi le 13 ed è arrivato il tempo per una pausa pranzo, mi dirigo verso Roszke, a pochi chilometri dal centro , dove si trova il passaggio a livello della ferrovia , si ripete nuovamente la scena vista in precedenza . Un campo improvvisato e la polizia a fare da sorveglianza.
A Roszke non c’è molto, così decido di fare ulteriori 12 km e pranzare nella città di Szeged, città completamente distrutta alla fine dell’ 800 da un’alluvione e ricostruita con canoni moderni. Szeged è una della tappe, una delle ultime verso la sperata salvezza per i migranti, ma come si è visto ad Asotthalom, difficile da raggiungere.
Dopo un’ora ritorno verso Budapest nella mente e nel cuore le immagini a margine di questa migrazione imponenete che preme attraverso i Balcani sulle porte malmesse dell’Europa Unita.
Il mattino seguente mi avvio verso la stazione di Keleti, per prendere il treno per Timisoara da dove partirò all’alba del giorno successivo.
Arrivato alla stazione, guardo giù verso il sottopasso, decine di persone dormono in giacigli improvvisati e attendono il loro destino.
Chissà se molti di loro saranno “ospitati” sul famigerato Intercity che da Budapest porta a Pecs, stavolta magari non più chiusi a chiave, internati in alcuni vagoni senza acqua ne cibo.
Un cartello attira la mia attenzione , per la sua involontaria ironia, proprio dove si dovrebbe scendere nel sottopasso, c’è un cartello con su scritto “Tranzit Zone” che indica il percorso alternativo per prendere la metro o i bus.
La vita a volte sa essere davvero involontariamente ironica, anche se di ironico in tutto questo c’è davvero poco.
Ad Assothalom, come a Lampedusa, come a Gevghelia, come a Kos, a Ceuta e Melilla, muore l’Europa delle presunte libertà, e il suo concetto ipocrita di libera circolazione.
Dopo poche ora a Timisoara, mentre attendo (e attenderò per circa un’ora) che mi servano da mangiare in uno dei ristoranti della bella e immensa Piata Victoriei, parlo a lungo con una delle tante coppie italo- rumene che si sono formate in una città da tempo meta di espansione dell’imprenditoria italiana ma, che per la sua posizione e per i suoi difficili collegamenti, resta ai margini dei circuiti turistici.
Parliamo della realtà rumena e anche per un po’ delle problematiche legate alla massiccia ondata migratoria. Anche se al momento la Romania non sembra interessata , se non marginalmente, dal flusso umano, è evidente che con la creazione del muro posto sul confine tra Ungheria e Serbia, il problema si sposterebbe soltanto di pochi chilometri.
Alcuni degli “scafisti di terra”, intervistati da alcuni giornali locali, hanno ammesso di aver già pronta una via alternativa che prevede proprio l’ingresso in Romania dal confine Serbo e il conseguente ingresso in Ungheria dal confine rumeno.
A questo punto è da chiedersi cosa farà il governo rumeno, costruirà il suo muro o farà come il governo macedone che ha aperto le frontiere in ingresso dalla Grecia?
L’Europa, la nuova Europa come la chiamano sul sito ansa.it è posta di fronte ad una nuova sfida, una sida da affrontare in una completa mancanza di infrastrutture.
Come reagirà la vecchia Europa?

domenica 25 gennaio 2015

Un angelo di Sarajevo (in ricordo di Elma)

Domenica pomeriggio, mi chiama mio fratello: " Stanno trasmettendo un documentario su Mostar e Sarajevo ...", è così che mi ricordo di te, un attimo e sono già a Sarajevo, nella "mia" Sarajevo e i vostri volti mi ritornano in mente come una delle cose più belle e strane della mia vita. Cose piccole magari ma che rimangono nel cuore.
Così decido di andare a visitare la tua pagina, tu parli italiano è per questo che abbiamo mantenuto un rapporto più semplice, condividiamo una lingua, ma non solo, anche molta musica.
E mi ricordo di quel progetto che avevo in mente e di cui ti avevo parlato chiedendoti magari se potevi aiutarmi con qualche traduzione.
E allora ritorno sulla tua pagina, era da tempo che non ti vedevo comparire sulla mia bacheca, che non postavi belle canzoni, però si sa su facebook tutto è così veloce, così fallace, io in genere mi fermo a leggere i primi venti commenti e poi basta, magari, ho pensato, sei finita dal ventunesimo in poi.
E quindi vado sulla tua pagina e quello che leggo non lo capisco, non lo comprendo, non perché non capisca la lingua, le immagini poi dicono molto, non comprendo come sia possibile che tu non ci sia più e che io non me ne sia accorto.
E mi fermo a leggere, a leggere tra le righe, leggo e rileggo, e davvero Elma non ci sei più.
Non so dire se e quanto eravamo amici, ma in qualche modo abbiamo condiviso dei momenti delle impressioni, delle idee e questo basta per legare le persone.
Rileggo i messaggi che ci siamo mandati i tentativi mai riusciti di rivederci anche con le altre ragazze a Sarajevo, la tua voglia di vivere che traspariva da quello che scrivevi, il tuo legame forte con l'Italia dove  avevi vissuto.
Sarebbe stato bello conoscere meglio la tua storia, ma è incredibile, tu non ci sei più e scopro che mi comporta dolore vedere le tue foto, vederti così bella, come un angelo.
Chissà quanto dolore hanno vissuto e vivono le persone che ti sono state accanto, posso solo provare ad immaginarlo.
Io nel mio piccolo voglio ricordarti come ti ricordo quella sera a Skenderija, la partita Bosnia - Portogallo, io che ho un biglietto con cui posso far entrare quattro persone e dico, adesso mi giro e le prime persone che trovo dietro le faccio entrare con me.
E mi giro e ci sono tre simpatiche ragazze con la sciarpa della Bosnia, sorridenti, felici, e chiedo loro se vogliono entrare con me. Ancora oggi mi domando cosa hanno pensato in quel momento Taisa, Anida e Amra, ma poi i sorrisi e la voglia di vedere una partita storica fanno superare tutto.
Ed eccoci al tavolo, non so quanti litri di birra nel mezzo, le sciarpe della Bosnia e l'inno "Hajmo", penso che proprio prima della partita ci hanno presentati, mi hanno detto : "lei parla italiano", c'era anche tua sorella Mirna.
Non ricordo di cosa abbiamo parlato, l'euforia per la partita era tanta, è stata una serata divertente, magica con voi ho avuto la fortuna di vivere dall'"interno" quella partita storica, e mi sono sentito parte di una famiglia.
Ho ancora un video non so se tu ci sei ora lo rivedrò.
Di quella serata ho nella mia mente le immagini, i sorrisi, mi sembrava di vedere riunita in una sola sala la parte più bella e viva di Sarajevo.
E ora scopro con ritardo che non ci sei più, ora che per l'ennesima volta ho deciso di ritornare a Sarajevo.
Riguardo ancora le tue foto, ma davvero è possibile che tu non ci sia più? Possibile che così giovane sei volata via? Si dice che muore giovane chi al cielo è caro? Tu eri cara alla terra e ai tuoi cari, il cielo magari poteva attendere ancora un po', chissà.
Non so cosa ti è successo, non so se lo saprò mai, ma sono certo che Sarajevo ha un angelo in più e quando tornerò nella Gerusalemme d'Europa, cercherò quest'angelo nelle case delle tre differenti religioni che abitano la città, perchè un angelo è un angelo per qualunque fede.
Dove sei ora sono sicuro ci guardi e sorridi io ti saluto con la canzone di un cantautore che conosciamo ancora in pochi e che tu una volta mi hai sorpreso postandolo su Facebook " The tallest man on the earth".
Dovunque tu sia veglia su di noi come un angelo di pace.
Che ti sia dolce l'eternità

https://www.youtube.com/watch?v=H1zTPKm8tcY

sabato 10 gennaio 2015

Gaeta, la Pallamano, I Balcani e il grande Pavle Jurina

Stasera guardavo di nuovo la bacheca del grande Pavle Jurina, grande per noi che in un modo o nell'altro abbiamo amato e amiamo quel piccolo grande sport che è la Pallamano. Uno sport che per Gaeta è stato ed è motivo di orgoglio e di nascita di legami forti che neanche gli anni riescono a troncare.
Pavle Jurina era il Maradona dei Balcani, lo Zico della Pallamano, era un uomo di poche parole, dal tiro incredibilmente forte.
Ho alcuni ricordi legati a lui che non dimenticherò mai: un paio di tiri parati in qualche allenamento in cui noi giovani venivamo aggregati ( se lo ricordo mi fanno mare ancora le mani e i polsi) e un breve viaggio in macchina con lui verso Fondi per una delle tante partite giovanili, uno dei tanti derby.
Ricordo le sue parole, i suoi consigli, la sua pazienza, non sono mai stato un grande giocatore Pavle, ma non potrò mai dimenticare le tue lezioni.
Pavle Jurina, ma ancora prima Pero Veraja, poi ancora Mrkonia, erano per noi ragazzini delle specie di eroi, venivano da quella "lontana" Jugoslavia, dove la pallamano era il secondo o terzo sport non l'ultimo o quasi come in Italia, ed erano duri e puri, delle vere rocce, esempi da seguire.
Ed erano il legame con un mondo "fantastico" quella Jugoslavia di Tito che noi a Gaeta immaginavamo attraverso di loro.
Attraverso loro e il repentino ritorno in patria di alcuni di loro all'inizio degli anni 90 abbiamo saputo che in Jugoslavia c'era una guerra, una guerra vera e che forse quei ragazzi non sarebbero più tornati.
Penso che sia stato proprio allora che è nato il mio interesse per il Balcani, dov'era questa incredibile Bjelovar, la culla della pallamano jugoslava, quand'era grande questa città?
Ne è passato di tempo da allora, e i Balcani sono sempre più presenti nella mia vita, e ancora devo visitare Bjelovar che nel frattempo è divenuta città croata.
Ma quel passato mitico rimane nel mio cuore.
Ieri sfogliavo i due meravigliosi volumi sulla storia della Pallamano a Gaeta, quante emozioni, quanti volti di persone incrociate sul campo, vissute, amate.
E oggi sono qui a ricordare non solo un uomo, un campione, ma un'idea, un sogno, che ancora oggi fa parte della mia città e che lega la mia città da sempre al mondo, la Pallamano.
A tutti quelli che l'hanno giocata e ancora la giocano a tutti i livelli, che l'hanno vissuto e la vivono dagli spalti, che sperano come un miraggio che un giorno ci sia il famoso Palazzetto, a tutti quelli che ancora seguono uno degli sport "ultimi" della nostra Italia, questo è per voi.


Beldocs festival tra memoria e attualità? E se quello che vediamo non fosse davvero "fiction"?

Si è aperto mercoledì con la proiezione di "Another Spring", film serbo in prima visione su come la Jugoslavia nei primi anni se...