Immaginate di trovarvi su una
strada che attraversa un bosco, o un campo. Immaginate di essere rilassati al
volante della propria macchina, è estate, il vento vi scompiglia i capelli
mentre allungate il braccio fuori da finestrino. Odori e suoni della natura
tutto intorno. Pensate di essere completamente soli in quel susseguirsi di
colori e suoni, poi però qualcosa appare da lontano, più vi avvicinate più
quella macchia scura prende forma, ed è la forma di un uomo. Un uomo che chiede
un passaggio al bordo della strada.
Fermo immagine.
E’ un uomo al massimo sulla
trentina, ha una t-shirt come ce ne sono tante e come vengono indossate da
tanti, i jeans un po’ lisi, e il suo viso traspare la stanchezza di chi ha
viaggiato tanto e ora non ne ha più. Un piccolo zaino in spalla e nient’altro.
Siete soli in questa campagna solitaria che, ora che siete di fronte alle
vostre paure, vi sembra sempre più desolata. E quell’uomo vi sembra sempre più
pericoloso, si trasforma sempre di più e da viaggiatore diviene sempre più uno
straniero, un migrante, un clandestino.
E così passiamo oltre non
guardando nemmeno dal finestrino retrovisore.
Così facendo ci siamo tolti da un
potenziale pericolo, ci siamo allontanati da un potenziale elemento
perturbatore della nostra pace, del nostro viaggiare in tranquillità verso una
meta più o meno definita.
Ora torniamo indietro e per un
attimo mettiamoci nei panni dell’altro e scopriamo chi è.
Si tratta di un uomo sulla
trentina, un uomo stanco dal tanto viaggiare, che ha una sola necessità: di
fermarsi ovunque sia possibile, solo per bere dell’acqua, mangiare qualcosa,
qualunque cosa. Da dove viene? Dai tratti somatici potrebbe venire dalla Siria,
o dalla Turchia pur non essendo turco, potrebbe essere un curdo, forse non un
afghano.
Un viso, comunque stanco dalla
guerra e dal viaggio.
Cosa unisce allora queste due
persone completamente diverse che appena si sfiorano, che si guardano appena di
sfuggita nel passare della vettura? Cosa tiene insieme le loro storie seppure
così lontane, diverse, irriducibili? E’ la strada e il viaggio che ne è parte.
Non avete mai pensato ai migranti
come a dei viaggiatori vero? Eppure è proprio così sono viaggiatori come me e
te, anche loro si mettono in viaggio verso una meta, ma a differenza nostra, ma
forse solo in parte, non conoscono la meta, né tantomeno il mezzo di trasporto,
e del viaggio hanno solo una mappa approssimativa. Eppure questo sono e non
altro, dei viaggiatori. Quasi sempre dei viaggiatori involontari, che sono
costretti a mettersi in viaggio. Come accadde a Maria e Giuseppe sono costretti
a scappare verso un altro Egitto, per trovare salvezza, per poi sperare, come
la sacra famiglia di poter tornare a casa.
Ecco in comune oltre al viaggio
hanno con noi una casa. Ma quale casa?
Ogni comunità, ogni cultura, ha
un differente concetto di casa. Ci sono molte culture per cui la casa non è
l’ambiente interno, dove si dorme soltanto, ma il giardino, lo spazio comune,
dove si vive insieme alle altre famiglie, agli altri membri della comunità. La
casa è dove c’è il cuore, l’affetto, i cari.
Al ritorno dal nostro viaggio per
quanto lungo e travagliato possa essere, quasi sempre, però scelto
volontariamente da noi, dalle nostre
aspirazioni, al netto degli imprevisti, comunque torneremo a casa, ci saranno i
nostri parenti, i nostri amici, che ci
avranno pensato e si saranno preoccupati in silenzio durante la nostra assenza
e che attenderanno con curiosità il nostro racconto.
Spesso chi lascia il proprio
paese per necessità si pone come prospettiva il fatto drammatico di non tornare
più a casa, di non poter più vedere i propri cari, di non abitare più il
giardino, di non sentire più le voci che rendono unico il luogo chiamato casa.
E allora portano con sé qualcosa
che li possa avvicinare a loro, qualcosa di così banale per noi che il fatto
stesso che un altro diverso da noi possa “possedere” il medesimo oggetto, ci fa
rabbia. “Ecco guarda ha anche un cellulare”. Parole dette così, buttate senza
alcuna riflessione, tanto poi la nostra macchina scatta via e ce ne
dimentichiamo, ma nel frattempo abbiamo il tempo di scrivere sui social
“Vergogna gli paghiamo anche i cellulari … avete visto? Di ultima generazione.”
E non ci viene neppure in mente
che quel cellulare, quell’uomo che lascia tutto per l’ignoto, potrebbe averlo
comprato prima di partire, non per vezzo, né per divertirsi, ma perché ne ha
necessità, la necessità di comprendere dove si trova nella notte buia al
confine tra Grecia e Macedonia, o Turchia e Bulgaria o ancora tra Serbia e Ungheria.
E magari gli serve per chiamare pochi secondi a casa solo per dire : “Sono vivo
e voi? Come state?” sperando sempre di sentire dall’altra parte la voce amata.
E può servigli perché no, per fare rete con i disperati che con lui si
arrampicano sulle montagne, attraversano deserti, si aggrappano di notte alle
ruote di camion che attraversano confini che noi solo abbiamo creato.
E così infatti, la terra vista
dall’altro non ha confini, è puro territorio, siamo noi a costruire delle mappe
che colmiamo di significato, facendole divenire qualcosa di unico, sacro,
intoccabile.
Finzione, perché per quanti segni
possiamo iscrivere sul territorio, quel territorio non sarà mai nostro.
Ma è così che lo vediamo,
qualcosa di sacro e intoccabile, non passa lo straniero, qualunque straniero?
Sans papiers.
Probabilmente quest’uomo di cui
abbiamo ormai fissato il fermo immagine è un sans papiers, un migrante, un
clandestino, quindi, un criminale.
Il viaggiatore della storia che
vi sto raccontando sono io che passo con la mia macchina sulla strada che da Assothalom
in Ungheria porta al confine con la Serbia e al primo muro europeo ricostruito, l’uomo
sulla strada è uno dei tanti che è sfumato sul margine della strada (se vi va
potete guardare il breve video realizzato nel 2015 a questo link https://www.youtube.com/watch?v=MZ-zrg3_NQ4&t=360s).
Molti si sono nascosti per paura, altri si sono accampati sfiniti a pochi metri
da quel muro finalmente superato.
Ma c’è chi non ce l’ha fatta ed è
rimasto al di là del muro, nella terra di nessuno.
E per la maggior parte delle
autorità quest’uomo come tanti altri non ha un documento, è un san papier.
E il più delle volte non è vero,
e quando è vero non l’ha perso nel momento in cui chiedeva il conto al
ristorante, o poneva con poca grazia il suo soprabito su un divano o un sedile
di un treno facendo cadere inavvertitamente il passaporto.
Se quest’uomo ha perso i suoi
documenti è perché nel viaggio può essere stato malmenato, derubato, offeso,
ricattato, e peggio viene fatto ad una donna, molto peggio.
Ma comunque quest’uomo nasce e
viene registrato e quando si raggiunge l’età prevista dalla legge del proprio
stato, dotato di un documento legale e riconosciuto.
Ma questo è il punto:
riconosciuto da chi?
Perché sperando che nessuno lo
abbia malmenato, violentato, ricattato, umiliato nel cammino e che quindi
quest’uomo arrivi davanti ai guardiani del muro con il proprio documento, li
vivrà la più grande delle umiliazioni: “Il suo documento non ha alcun valore
per il nostro paese … non importa lei chi sia… per essere riconosciuto parte
del nostro paese deve avere un altro documento … non basta … non ha un visto di
soggiorno? … San Papier …" Si
ricomincia da capo … non esisti … impronte digitali … schedatura … nome … cognome
… clandestino … criminale.
E poi finisce che criminale
davvero senti di essere diventato e che per vivere alcune volte devi
diventarlo.
Ti chiudono in un posto che
cambia nome a seconda del governo in voga nel periodo, ma che ha sempre un nome
che lo rappresenta: Campo.
E non è il campo in cui giocavi
da ragazzo o dove sognavi di essere un grande calciatore.
Somiglia sempre di più ogni
giorno che ne sei dentro ad un campo di concentramento.
E più ci sei dentro e meno hai
voglia di uscirne perché stai perdendo pian piano quello che più ti rendeva
unico e al tempo stesso parte di una comunità globale: essere umano.
I Campi sono uguali dovunque e
dovunque nonostante gli sforzi di chi lavora nel sociale, di chi cerca di dare
speranza, sono posti in cui si perde se stessi, si diventa violenti, o
depressi, o tutto e due, non si sogna nulla se non di uscire o scappare di
nuovo, ma indietro davvero non si può tornare. O no?
E no, perché c’è il rischio che
dopo qualche anno a cercare di sopravvivere, un signore che ha ascoltato la tua
storia e l’ha inquadrata negli schemi previsti dalla legge, decida, che no, non
ci sono i requisiti per la concessione per il permesso umanitario, che non hai
diritto all’asilo, che sei scappato solo per motivi di fame e non di guerra.
E allora ti dicono hai tempo 15
giorni su di te pende un decreto di espulsione, non hai documenti di nuovo, sei
di nuovo un san papier e la storia si ripete ma in questo caso ancora peggio di
prima, sei sempre di più un criminale, anzi ora lo sei e basta senza
attenuanti.
E allora quell’uomo che abbiamo
visto sfilare sulla strada potrebbe essere anche un essere umano non gradito
due volte che non ha altro futuro che nascondersi in posti che hanno nomi
terribili coma la Fabbrica della Penicillina a Roma. Potrebbe essere un uomo
che ha abbandonato uno dei Campi della Bulgaria, Harmanli al confine con quella
Turchia pagata per tenere chissà dove una massa che preme verso l’Europa, o
Voenna Rampa o Ovcha Kupel.
Un siriano, un afghano, un
iracheno, un curdo, non ha più importanza da cui provenga quest’uomo, passato
al vaglio della nostra giustizia diviene un senza patria, un senza diritti,
qualcosa da cancellare prima che ci faccia troppo male vederlo, prima che ci
ricordi che sarebbe potuto accadere a noi.
Sulla strada ci siamo tutti,
viaggiatori, stranieri e migranti, e sulla strada dovremmo avere gli stessi
diritti, il diritto universale alla libertà del viaggiare, il diritto
universale al riconoscimento del nostro documento ovunque nel mondo.
Perché se è vero che nasciamo
tutti senza nome, un nome e un’identità ci viene data e ovunque dovrebbe essere
riconosciuta e rispettata.
Il mio viaggio dall’Ungheria alla
Bulgaria e ritorno termina qui, ma riprenderà, per raccogliere immagini e si
spera storie, storie che hanno un nome e un passaporto, storie che devono
essere “riconosciute”.
Ti auguro buon viaggio e di
incontrare storie sulla strada.
Buon 2019
https://www.youtube.com/watch?v=MZ-zrg3_NQ4&t=360s
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