lunedì 31 dicembre 2018

Sulla strada: viaggiatori, stranieri, migranti.


Immaginate di trovarvi su una strada che attraversa un bosco, o un campo. Immaginate di essere rilassati al volante della propria macchina, è estate, il vento vi scompiglia i capelli mentre allungate il braccio fuori da finestrino. Odori e suoni della natura tutto intorno. Pensate di essere completamente soli in quel susseguirsi di colori e suoni, poi però qualcosa appare da lontano, più vi avvicinate più quella macchia scura prende forma, ed è la forma di un uomo. Un uomo che chiede un passaggio al bordo della strada.

Fermo immagine.

E’ un uomo al massimo sulla trentina, ha una t-shirt come ce ne sono tante e come vengono indossate da tanti, i jeans un po’ lisi, e il suo viso traspare la stanchezza di chi ha viaggiato tanto e ora non ne ha più. Un piccolo zaino in spalla e nient’altro. Siete soli in questa campagna solitaria che, ora che siete di fronte alle vostre paure, vi sembra sempre più desolata. E quell’uomo vi sembra sempre più pericoloso, si trasforma sempre di più e da viaggiatore diviene sempre più uno straniero, un migrante, un clandestino.

E così passiamo oltre non guardando nemmeno dal finestrino retrovisore.

Così facendo ci siamo tolti da un potenziale pericolo, ci siamo allontanati da un potenziale elemento perturbatore della nostra pace, del nostro viaggiare in tranquillità verso una meta più o meno definita.

Ora torniamo indietro e per un attimo mettiamoci nei panni dell’altro e scopriamo chi è.

Si tratta di un uomo sulla trentina, un uomo stanco dal tanto viaggiare, che ha una sola necessità: di fermarsi ovunque sia possibile, solo per bere dell’acqua, mangiare qualcosa, qualunque cosa. Da dove viene? Dai tratti somatici potrebbe venire dalla Siria, o dalla Turchia pur non essendo turco, potrebbe essere un curdo, forse non un afghano.

Un viso, comunque stanco dalla guerra e dal viaggio.

Cosa unisce allora queste due persone completamente diverse che appena si sfiorano, che si guardano appena di sfuggita nel passare della vettura? Cosa tiene insieme le loro storie seppure così lontane, diverse, irriducibili? E’ la strada e il viaggio che ne è parte.

Non avete mai pensato ai migranti come a dei viaggiatori vero? Eppure è proprio così sono viaggiatori come me e te, anche loro si mettono in viaggio verso una meta, ma a differenza nostra, ma forse solo in parte, non conoscono la meta, né tantomeno il mezzo di trasporto, e del viaggio hanno solo una mappa approssimativa. Eppure questo sono e non altro, dei viaggiatori. Quasi sempre dei viaggiatori involontari, che sono costretti a mettersi in viaggio. Come accadde a Maria e Giuseppe sono costretti a scappare verso un altro Egitto, per trovare salvezza, per poi sperare, come la sacra famiglia di poter tornare a casa.

Ecco in comune oltre al viaggio hanno con noi una casa. Ma quale casa?

Ogni comunità, ogni cultura, ha un differente concetto di casa. Ci sono molte culture per cui la casa non è l’ambiente interno, dove si dorme soltanto, ma il giardino, lo spazio comune, dove si vive insieme alle altre famiglie, agli altri membri della comunità. La casa è dove c’è il cuore, l’affetto, i cari.

Al ritorno dal nostro viaggio per quanto lungo e travagliato possa essere, quasi sempre, però scelto volontariamente  da noi, dalle nostre aspirazioni, al netto degli imprevisti, comunque torneremo a casa, ci saranno i nostri parenti,  i nostri amici, che ci avranno pensato e si saranno preoccupati in silenzio durante la nostra assenza e che attenderanno con curiosità il nostro racconto.

Spesso chi lascia il proprio paese per necessità si pone come prospettiva il fatto drammatico di non tornare più a casa, di non poter più vedere i propri cari, di non abitare più il giardino, di non sentire più le voci che rendono unico il luogo chiamato casa.

E allora portano con sé qualcosa che li possa avvicinare a loro, qualcosa di così banale per noi che il fatto stesso che un altro diverso da noi possa “possedere” il medesimo oggetto, ci fa rabbia. “Ecco guarda ha anche un cellulare”. Parole dette così, buttate senza alcuna riflessione, tanto poi la nostra macchina scatta via e ce ne dimentichiamo, ma nel frattempo abbiamo il tempo di scrivere sui social “Vergogna gli paghiamo anche i cellulari … avete visto?  Di ultima generazione.”

E non ci viene neppure in mente che quel cellulare, quell’uomo che lascia tutto per l’ignoto, potrebbe averlo comprato prima di partire, non per vezzo, né per divertirsi, ma perché ne ha necessità, la necessità di comprendere dove si trova nella notte buia al confine tra Grecia e Macedonia, o Turchia e Bulgaria o ancora tra Serbia e Ungheria. E magari gli serve per chiamare pochi secondi a casa solo per dire : “Sono vivo e voi? Come state?” sperando sempre di sentire dall’altra parte la voce amata. E può servigli perché no, per fare rete con i disperati che con lui si arrampicano sulle montagne, attraversano deserti, si aggrappano di notte alle ruote di camion che attraversano confini che noi solo abbiamo creato.

E così infatti, la terra vista dall’altro non ha confini, è puro territorio, siamo noi a costruire delle mappe che colmiamo di significato, facendole divenire qualcosa di unico, sacro, intoccabile.

Finzione, perché per quanti segni possiamo iscrivere sul territorio, quel territorio non sarà mai nostro.

Ma è così che lo vediamo, qualcosa di sacro e intoccabile, non passa lo straniero, qualunque straniero?

Sans papiers.

Probabilmente quest’uomo di cui abbiamo ormai fissato il fermo immagine è un sans papiers, un migrante, un clandestino, quindi, un criminale.

Il viaggiatore della storia che vi sto raccontando sono io che passo con la mia macchina sulla strada che da Assothalom in Ungheria porta al confine con la Serbia  e al primo muro europeo ricostruito, l’uomo sulla strada è uno dei tanti che è sfumato sul margine della strada (se vi va potete guardare il breve video realizzato nel 2015 a questo link https://www.youtube.com/watch?v=MZ-zrg3_NQ4&t=360s). Molti si sono nascosti per paura, altri si sono accampati sfiniti a pochi metri da quel muro finalmente superato.

Ma c’è chi non ce l’ha fatta ed è rimasto al di là del muro, nella terra di nessuno.

E per la maggior parte delle autorità quest’uomo come tanti altri non ha un documento, è un san papier.

E il più delle volte non è vero, e quando è vero non l’ha perso nel momento in cui chiedeva il conto al ristorante, o poneva con poca grazia il suo soprabito su un divano o un sedile di un treno facendo cadere inavvertitamente il passaporto.

Se quest’uomo ha perso i suoi documenti è perché nel viaggio può essere stato malmenato, derubato, offeso, ricattato, e peggio viene fatto ad una donna, molto peggio.

Ma comunque quest’uomo nasce e viene registrato e quando si raggiunge l’età prevista dalla legge del proprio stato, dotato di un documento legale e riconosciuto.

Ma questo è il punto: riconosciuto da chi?

Perché sperando che nessuno lo abbia malmenato, violentato, ricattato, umiliato nel cammino e che quindi quest’uomo arrivi davanti ai guardiani del muro con il proprio documento, li vivrà la più grande delle umiliazioni: “Il suo documento non ha alcun valore per il nostro paese … non importa lei chi sia… per essere riconosciuto parte del nostro paese deve avere un altro documento … non basta … non ha un visto di soggiorno? … San Papier …"  Si ricomincia da capo … non esisti … impronte digitali … schedatura … nome … cognome … clandestino … criminale.

E poi finisce che criminale davvero senti di essere diventato e che per vivere alcune volte devi diventarlo.

Ti chiudono in un posto che cambia nome a seconda del governo in voga nel periodo, ma che ha sempre un nome che lo rappresenta: Campo.

E non è il campo in cui giocavi da ragazzo o dove sognavi di essere un grande calciatore.

Somiglia sempre di più ogni giorno che ne sei dentro ad un campo di concentramento.

E più ci sei dentro e meno hai voglia di uscirne perché stai perdendo pian piano quello che più ti rendeva unico e al tempo stesso parte di una comunità globale: essere umano.

I Campi sono uguali dovunque e dovunque nonostante gli sforzi di chi lavora nel sociale, di chi cerca di dare speranza, sono posti in cui si perde se stessi, si diventa violenti, o depressi, o tutto e due, non si sogna nulla se non di uscire o scappare di nuovo, ma indietro davvero non si può tornare. O no?

E no, perché c’è il rischio che dopo qualche anno a cercare di sopravvivere, un signore che ha ascoltato la tua storia e l’ha inquadrata negli schemi previsti dalla legge, decida, che no, non ci sono i requisiti per la concessione per il permesso umanitario, che non hai diritto all’asilo, che sei scappato solo per motivi di fame e non di guerra.

E allora ti dicono hai tempo 15 giorni su di te pende un decreto di espulsione, non hai documenti di nuovo, sei di nuovo un san papier e la storia si ripete ma in questo caso ancora peggio di prima, sei sempre di più un criminale, anzi ora lo sei e basta senza attenuanti.

E allora quell’uomo che abbiamo visto sfilare sulla strada potrebbe essere anche un essere umano non gradito due volte che non ha altro futuro che nascondersi in posti che hanno nomi terribili coma la Fabbrica della Penicillina a Roma. Potrebbe essere un uomo che ha abbandonato uno dei Campi della Bulgaria, Harmanli al confine con quella Turchia pagata per tenere chissà dove una massa che preme verso l’Europa, o Voenna Rampa o Ovcha Kupel.

Un siriano, un afghano, un iracheno, un curdo, non ha più importanza da cui provenga quest’uomo, passato al vaglio della nostra giustizia diviene un senza patria, un senza diritti, qualcosa da cancellare prima che ci faccia troppo male vederlo, prima che ci ricordi che sarebbe potuto accadere a noi.

Sulla strada ci siamo tutti, viaggiatori, stranieri e migranti, e sulla strada dovremmo avere gli stessi diritti, il diritto universale alla libertà del viaggiare, il diritto universale al riconoscimento del nostro documento ovunque nel mondo.

Perché se è vero che nasciamo tutti senza nome, un nome e un’identità ci viene data e ovunque dovrebbe essere riconosciuta e rispettata.

Il mio viaggio dall’Ungheria alla Bulgaria e ritorno termina qui, ma riprenderà, per raccogliere immagini e si spera storie, storie che hanno un nome e un passaporto, storie che devono essere “riconosciute”.

Ti auguro buon viaggio e di incontrare storie sulla strada.

Buon 2019

https://www.youtube.com/watch?v=MZ-zrg3_NQ4&t=360s

Nessun commento:

Posta un commento

Beldocs festival tra memoria e attualità? E se quello che vediamo non fosse davvero "fiction"?

Si è aperto mercoledì con la proiezione di "Another Spring", film serbo in prima visione su come la Jugoslavia nei primi anni se...