Fin da quando
in Italia giunsero le prime notizie sul massacro di Srebrenica, dentro di me iniziò un lungo percorso di
ricerca e riflessione che ancora non si è concluso. Partivo, in questo mio
lungo e frammentario viaggio da una semplice domanda: “Perché”?
Una domanda
solo all’apparenza semplice, perché cercare una risposta significava iniziare
una sorta di viaggio iniziatico nei Balcani, dove nulla è facile e quasi tutto
può essere interpretato.
E questo
viaggio materialmente è iniziato più o meno dieci anni dopo il massacro, nel
2005, con i primi contatti con il “continente” ex jugoslavo.
Un viaggio
graduale che mi ha portato, nel corso degli anni, partendo da Lubiana, a raggiungere il confine tra Bulgaria e
Turchia. Un viaggio che partendo dalla nazione meno complessa a livello etnico,
storico e religioso mi ha portato al cuore dei Balcani: Sarajevo.
Dalla capitale
bosniaca per tortuosi cammini sono
arrivato fino a Srebrenica che ancora adesso considero il luogo in cui per la
prima volta l’allora Comunità Europea, ha iniziato a morire.
Nella sua
incapacità di comprendere cosa stesse succedendo a Srebrenica e intorno alla
città, la Comunità Internazionale ha dimostrato la sua inettitudine e in molti
casi la sua cattiva coscienza.
Molto si è
scritto e molto ho letto su Srebrenica, e naturalmente mi sono fatto una mia
idea ben precisa su cosa è accaduto. Ho letto anche uno dei maggiori libri
“revisionisti” su Srebrenica in cui la strage, seppure sminuita, reinterpretata
e ribaltarla, viene comunque riportata nel tragico contesto in cui è maturata.
Ma quello che
più di tutto mi interessa, e mi è sempre interessato è raccogliere le voci di
chi ha vissuto “Srebrenica”, una memoria difficile e controversa.
Nel mio
cammino di ricerca ho avuto la fortuna di avvicinarmi alla realtà dei
“sopravvissuti” di Srebrenica attraverso le testimonianze raccolte e rese
pubbliche dall’Associazione “Zene
Srebrenice” e soprattutto dalla signora Hajira Catic.
Poi un giorno
ho scoperto che una ragazza bosniaca di cui ero diventato amico su un noto
social network aveva scritto un piccolo
e meraviglioso libro su Srebrenica.
Di questo
libro ne ho seguito la genesi, alcune
volte senza comprenderne completamente il messaggio, fino alla sospirata
versione in inglese, e alla scoperta di un’emblematica storia di vita .
Il libro ha un
titolo che da speranza : “My smile is My
Revenge”.
In un periodo
storico in cui i toni di qualunque confronto sono sempre molto alti e
improntati all’offesa, già pensare che una persona che ha perso tutto, la
propria casa, parte del proprio parentado, che ha vissuto la realtà di un
genocidio, possa reagire a questo male assoluto con un sorriso, mi convinceva
sempre di più sulle necessità di
conoscere questa meravigliosa persona
nella vita reale .
E quindi
eccoci.
Incontro Dzeva
Avdic in una fredda giornata sarajevita,
durante la notte è caduta la prima neve , e la città è in pieno movimento.
Dzeva, una
ragazza con un sorriso solare, è una
delle “bambine di Srebrenica”, una delle
sopravvissute e sono curioso di sentire
dalla sua voce il racconto della sua storia.
Mentre
parliamo seduti al tavolino di un bar del BBI
Centar ,con l’ausilio di una sua amica che traduce in bosniaco le mie
domande, noto che Dzeva è spesso in tensione.
Non può immaginare quanto lo sia io che non sono avvezzo a interviste
strutturate e spero che la tensione si allenti e che l'intervista diventi una
chiacchierata tra amici.
La sua voce è
calma, pacata, ma tradisce l’emozione del racconto di qualcosa di terribile e
che non sarà mai possibile raccontare con distacco.
Le chiedo
quanti anni avesse quando tutto è successo.
Dzeva
aveva quasi 6 anni, suo fratello tre anni in più. In modo quasi incredibile lei
e il fratello sono nati lo stesso giorno anche se a distanza di anni. Questa
causalità forse è anche causa del fortissimo legame che li lega, e di cui nel
libro si parla in molte occasioni.
Se
si ha la fortuna di leggere il libro ci si accorge che l’intero lavoro è una
forma di restituzione di quanto dato da parte delle persone che Dzeva considera i veri eroi della storia, i
suoi genitori, suo fratello.
" Voi siete il mio tutto. Voi siete i miei eroi. C'è solo una madre e un
padre... Eroi che avete fatto tutto dal nulla. Non avevate frequentato le
scuole superiori, non c'era lavoro, non avevamo una casa, neanche i vestiti, né il cibo in abbondanza ... Ma noi avevamo
loro e loro noi ..."
Ancora un estratto
dal libro di Dzeva: "Questo libro è
il mio debito! Questo libro è la mia fanciullezza e la mia fanciullezza è nelle
mie ferite ... un modo per cercare
attraverso la scrittura la pace per la mia anima, una cura per il mio cuore e una punizione per il male".
Chi pensa di
trovare nel libro una dettagliata cronistoria di quanto avvenuto a Potocari
l’11 luglio del 1995 potrebbe rimanere deluso. Dzeva ci racconta sì cos’è stato
Srebrenica, ma soprattutto cos’è stato della sua vita e di quella della sua
famiglia dopo Srebrenica.
Per questo il
libro di Dzeva è importante e dovrebbe essere letto da più persone possibile in
un Europa che ha perso il senso e la misura dell’accoglienza e della tolleranza.
Nei giorni
successivi all’11 luglio inizia la fuga e il calvario della famiglia Avdic. Il
padre viene separato dalla sua famiglia prima della partenza forzata verso la
regione di Tuzla nella neonata
Repubblica di Bosnia Erzegovina, il fratello si salva solo perché nascosto
dalla madre sotto le gambe.
Come molti
altri Dzeva e la parte femminile della sua famiglia vengono deportati, e
cambiano "casa" ben nove volte.
Deportati a
Potocari dal loro villaggio Zeleni Jadar, passano le prime due notti nel campo e poi il 13 luglio
vengono letteralmente spinti verso i bus
dove gli uomini vengono separati dalle donne .E qui che la famiglia si
divide, il padre di Dzeva e il nonno
fuggono nei campi e si arruolano nella "resistenza".
Il bus li
porta nei paraggi di Kladanj (a Tisca) situata nel territorio libero ma che può
essere raggiunta solo attraversando a piedi una piccola porzione di territorio serbo.
Da Kladanj
raggiungono l'aeroporto di Dubrave
vicino al villaggio di Zivinice, e da li in bus Lukavac, sostando più a lungo
in una località chiamata Devetak.
Ed è lì che vengono
raggiunti dal padre che credevano morto. E' l' undicesimo giorno dopo
Srebrenica, il calvario continua.
Dopo qualche
giorno ritornano a Zivinice in un luogo chiamato Durdevik dove occupano una
casa serba abbandonata. Durdevik era, infatti, un piccolo villaggio serbo, ma
coloro che ancora vi vivevano presto lo abbandonarono. Uno dei tanti frutti
avvelenati della cartografia di Dayton, dello scambio di enclaves e territori
in cambio di una fragile pace.
La vita a
Durdevik in qualche modo ricomincia, Dzeva torna a scuola, ma, niente è come
prima. Racconta : "mi sentivo come
se vivessi in un corpo morto".
A Marzo 1996 i
genitori decidono di spostarsi a Sarajevo, ma Dzeva raggiungerà il padre e il
nonno con la madre e il fratello solo al termine dell'anno scolastico.
Anche in questo
caso trovano alloggio in una vecchia, distrutta e abbandonata casa serba, nel piccolo villaggio di Krivoglavci vicino Vogosca, piccolo paese sulla strada per Zenica
poco fuori dall’area urbana di Sarajevo:
" Non era possibile trovare nulla
ovunque ... vivevamo in una sorta di terra desolata ... la casa era
semidistrutta , i vetri inesistenti , il pavimento collassato, il bagno era
inadeguato e si trovava nel garage, non c'erano stoviglie, nulla ...".
Il racconto di
Dzeva affronta molti nodi della vita “dopo Srebrenica”.
Il primo è
quello riguardante la perdita della propria terra, del proprio parentado, della
propria casa e come nel caso della famiglia Advic, la paradossale necessità di
occupare una casa precedentemente occupata da una famiglia serba, come accade
dapprima a Durdevik e poi a Vogosca.
Questo vivere
nella “casa del nemico” e cosa significhi nella vita quotidiana, viene spesso
evidenziato da Dzeva nel suo racconto. Forse è anche il vivere una casa che non
potrà mai essere propria che porterà Dzeva a vivere sempre più con un senso di
precarietà la vita dopo Srebrenica. E anche per questo l'acquisto di una casa
dopo 18 anni dall'addio alla casa di Srebrenica, l'8 settembre 2010, diventerà
per tutta la famiglia una sorta di rito di passaggio.
Ma torniamo ai
primi mesi di vita a Vogosca. La vita deve andare avanti e in qualche modo
prosegue anche se tra tante sofferenze, rinunce e umiliazioni. Dzeva e gli
altri ragazzi devono percorrere molti chilometri a piedi per arrivare a scuola,
percorrendo la strada principale, non importa se ci sia il sole, la pioggia o
la neve. A scuola a causa delle loro povertà spesso sono derisi dagli stessi
maestri, ed inizia ad emergere lo "stigma di Srebrenica"
La vita
scolastica e relazionale di Dzeva , infatti, è piena di queste piccole grandi
umiliazioni, spesso legate proprio alla sua provenienza.
E questo è un
altro nodo fondamentale: come i sopravvissuti a Srebrenica siano stati e sono
ancora "vissuti" dal resto della popolazione bosniaca.
Dzeva racconta
come l'essere sopravvissuti a Srebrenica venga visto con disappunto da parte di
molti, anche da parte di chi ha subito un lungo assedio da parte dei serbi di Bosnia. Soprattutto nella sua carriera universitaria
le umiliazioni saranno molte come quella volta che un professore le disse :
" Voi di Srebrenica siete solo
capaci di supplicare e piangere".
Che, non solo
nella Repubblica Sprska, ma anche in Bosnia Erzegovina ci sia in atto un vero e
proprio tentativo di minimizzare quanto accaduto a Srebrenica e come venga
quasi del tutto ignorato quanto accaduto da parte dei giovani nati a ridosso o
successivamente al genocidio, si evince da questo episodio della vita universitaria
raccontato da Dzeva:
" Alcuni studenti aspettavano di sostenere un esame, un ragazzo arrivò di
corsa e sussurrò ai suoi amici "-Nessuno passerà l'esame se non sa quando
è caduta di Srebrenica - ... Io quasi
saltai in piedi mi guardai intorno ... per la prima volta mi sentii orgogliosa
... c'era qualcuno che non aveva dimenticato
... ma successivamente vissi un vero e proprio shock ... molti dei miei
colleghi di corso non conoscevano la data della caduta di Srebrenica ... ed
erano passati soltanto 10 anni ... iniziai a chiedermi cosa sarebbe accaduto
tra 40-50 anni "
Le umiliazioni
continuano nel primo anno di lavoro: " Uno
dei colleghi mi chiese: - Da dove vieni? - io dissi "Srebrenica" . Ci fu
silenzio e molta tristezza nei loro visi ... poi una collega mi disse con
disprezzo: "perché non ritorni a
vivere li ... ?” …"perché non abbiamo più una casa lì ... " La sua
risposta fu terribile " bene, non ne avrai una qui sicuramente".
La
chiacchierata va avanti tra qualche difficoltà linguistica e qualche sorriso, e
ci avviciniamo verso la fine, ed è ora il momento di affrontare un argomento
sicuramente difficile ma che è centrale per comprendere l'importanza del
racconto di Dzeva: il suo rapporto con
Srebrenica, e in particolare con Potocari luogo di memoria e di memorie.
Dzeva racconta
di come il libro sia scaturito proprio dalla sua prima visita a Potocari, divenuta una sorta di liberazione:
"Non ritornai a Potocari fino all'11 luglio del 2013. Il primo passo fu
molto difficile le mie gambe sembravano piegarsi, erano pesanti e mi sentivo come se tutto il
corpo non fosse mio ... avvertii un forte dolore al petto ... l'aria mi
sembrava pesante come la pietra e dolorosa come una ferita... Dopo la visita
non riuscivo a smettere di piangere ... ma fu in quel momento che capii che
dovevo fare qualcosa per tutte le persone che giacevano a Potocari ... dovevo
parlare ... quanto accaduto non doveva essere dimenticato ... e allora mi venne
l'idea del libro ... come una restituzione".
Il racconto di Dzeva conferma, come se davvero
ce ne fosse bisogno, che Srebrenica sia “accaduta”.
E questa non è
una riflessione banale, perché il tentativo di rivedere e di sminuire quanto
accaduto a Srebrenica esiste ed è molto
forte, ed è ancora forte anche in molti ambienti dell’ estrema sinistra in
Italia.
Rivolgo a
Dzeva una domanda proprio su questa pubblicazione uscita in Italia qualche anno
fa. Il titolo del libro in questione è "Srebrenica:
come sono andate davvero le cose"
un libro uscito in Germania e edito in Italia nel 2012, gli autori sono Alexander Zorin e Zoran Jovanovic. In
quarta di copertina diviene chiaro qual 'è il messaggio del libro : " La versione ufficiale è una menzogna
propagandistica ... in questo libro si dimostra che il massacro c'è veramente
stato ma fu un massacro ai danni dei serbi".
Il libro, le
spiego, ha avuto un certo successo ed è stato distribuito anche in grandi
librerie italiane.
Chiaramente la
reazione di Dzeva è di sorpresa e subito dopo di dolore visto che probabilmente
questo dimostra come non solo in Italia ma nell'intera Europa Unita non si sia davvero compreso cosa sia successo in Srebrenica.
Seppure la Bosnia e l'Erzegovina siano terre "martiri" in cui ancora oggi
si è alla ricerca dei resti materiali dei tanti che da una parte e dall'altra
sono stati uccisi solo a causa della loro provenienza religiosa o culturale (si
veda il caso della fossa comune rinvenuta ad Ahmici a pochi chilometri da
Travnik), non si puo’ negare che a Srebrenica ci sia stato una vera e propria
gradualita’, un processo che ha portato alla costruzione e alla legittimazione
della strage.
Alla fine concordiamo sul fatto che è giunta l'ora
in cui il giorno della memoria che ricorda Srebrenica, l' 11 luglio, diventi un
giorno della memoria europeo, e non soltanto una memoria “locale” e che in
Europa Occidentale si inizi a visitare non solo Auschwitz ma anche Srebrenica,
Potocoari e il museo del genocidio che
si trova a Sarajevo. Questo per
comprendere cosa storicamente e’ avvenuto, quali e di chi sono le colpe,
comprese quelle dell’Europa e della NATO naturalmente.
Che l'11 luglio diventi un giorno della memoria
universale per ricordare che " ...
siamo sopravvissuti ... e che siamo qui
a cambattere la nostra battaglia ... a mostrare al mondo la nostra forza e il
nostro cuore di acciaio ... Noi i sopravvisuti siamo stati uccisi comunque ...
perchè saremo marcati per sempre ... anche se il sinonimo per Srebrenica è
"la lotta" ... Noi popolo di sreberenica siamo obbligati a parlare, a
scrivere, e a ricordare , per avere vendetta con le parole e con con l'odio o
le armi."
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